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Ipocrisia ambientale in Messico

10 giugno 2011 2 commenti
Lottare contro il cambiamento climatico «tocca a tutti, in proporzione differente certo, ma tocca a tutti perché (noi paesi “poveri”) siamo i più colpiti». Con queste parole, il presidente messicano Felipe Calderón ha inaugurato la cerimonia di celebrazione della Giornata mondiale dell’ambiente dello scorso 5 giugno. E, incitando i presenti «ad accelerare il passo» in tale direzione, ha continuato: «Il Messico ha rotto il paradigma e il pregiudizio secondo i quali la lotta per frenare il cambiamento climatico è solo una questione dei paesi sviluppati». Calderón ha inoltre criticato coloro che «nell’ambito internazionale prendono decisione senza la consapevolezza del cambiamento climatico, nonostante le tragedie causate dall’aumento di inondazioni, uragani e tornado». Infine, orgoglioso, ha aggiunto: «Il governo (messicano) va nella giusta direzione nella difesa dell’ambiente: in dieci anni, dal 1990 al 2000, si perdevano 350 mila ettari di boschi all’anno; oggi se ne perdono solo (sic) 155 mila».
Belle parole: mentre il presidente parlava così però, il Messico di sotto, quello delle comunità indigene e della popolazione delle aree rurali messicane, continuava a vivere un’altra realtà. Il 2 giugno, per esempio, il Comitato «Salviamo Temacapulín, Acasico y Palmarejo», che si oppone ormai da diversi anni alla costruzione della diga El Zapotillo nello stato occidentale di Jalisco, ha ricevuto un colpo importante alla sua battaglia. La diga, prevista sul Rio Verde, allagherà circa 12mila ettari di terre nelle tre municipalità citate, costringendo a evacuare oltre mille abitanti permanenti e altri 3.000 stagionali. Dopo anni di scontro – anche fisico – tra le comunità colpite dal progetto e le autorità messicane dei diversi livelli di governo, era riuscito a istituire un tavolo di dialogo. Difficile per le continue pressioni, ma pur sempre un dialogo. E invece, inaspettatamente, il 2 giugno, tre giorni prima che Calderón rivendicasse la «giusta direzione» verso cui si muove la politica ambientale messicana, il ministero degli interni ha sospeso il dialogo. «Il progetto El Zapotillo si farà», non ci son santi. In barba non solo alle rimostranze delle comunità colpite, ma soprattutto dei danni ambientali previsti da numerosi studi realizzati in merito.
Allo stesso tempo, è scoppiata l’ennesima protesta contro l’industria mineraria, principalmente in mano delle imprese multinazionali canadesi. Le comunità indigene huicholes, del nord del paese, riunite nel Fronte di Difesa Wirikuta Taamatsima Waaha, esigono l’immediata cancellazione dei 22 permessi concessi dallo Stato messicano all’impresa First Majestic Silver Corp. I permessi, denunciano gli indigeni, permettono all’impresa canadese l’esplorazione e lo sfruttamento «a cielo aperto», pratica industriale mineraria che ha abbondantemente dimostrato la sua capacità distruttiva non solo di ampi territori ma anche delle risorse – soprattutto idriche – che vi si trovano.
Ed allora, vale la pena ricordare quanto si diceva in Messico qualche mese fa, giustamente prima della riunione di Cancún. Andrés Barreda, accademico dell’Università Nazionale Autonoma del Messico e membro dell’Assemblea Nazionale Vittime Ambientali, diceva che «in Messico il vantaggio competitivo sul piano degli investimenti stranieri non è più il salario. Su questo, la Cina ci batte ampiamente. Piuttosto si tratta della deregulation ambientale». La possibilità di poter inquinare e distruggere l’ambiente senza limite alcuno, è una condizione che non ha prezzo. Dighe, miniere, ma anche industria chimica e agroindustria dilagano senza limite alcuno nel paese. È questa la «giusta direzione» di cui parla il governo messicano?

L’Enel e i maya del Quichè

26 Maggio 2011 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 26 maggio 2011.
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Ne avevamo già parlato, ma forse vale la pena tornarci. Si tratta del progetto idroelettrico Palo Viejo, nella regione del Quichè, Guatemala settentrionale, un investimento da 185 milioni di dollari co-finanziato dalla banca Mondiale. I protagonisti sono i soliti: un’importante impresa multinazionale italiana, l’Enel Green Power (Egp); il governo guatemalteco, che ha approvato il progetto e lo sostiene con forza; le comunità indigene di origine maya della zona interessata. Ma nel quadro entrano altri due elementi, non da poco conto: la presenza delle forze armate nel territorio e il ruolo controverso dell’ambasciata d’Italia.
La presenza delle truppe dell’esercito guatemalteco in quella zona del Quichè è stata ampliamente documentata dalle comunità indigene e dalle organizzazioni della società civile solidali. È dal febbraio scorso che i militari guatemaltechi fanno il bello e cattivo tempo presso le comunità del municipio di San Juan Cotzal, dove è forte l’opposizione al progetto idroelettrico: centinaia di uomini in passamontagna che terrorizzano, irrompono, invadono, occupano (vedi terraterra del 29 marzo scorso). Forse è bene ricordare che questa regione è stata per oltre trent’anni teatro di scorribande dello stesso esercito, che ha seminato il terrore durante guerra civile che ha attraversato il paese. È evidente che la presenza armata di questi mesi ricorda troppo da vicino le «prassi» messe al bando dal Trattato di Pace firmato nel 1996. Tra l’altro, molta del’opposizione ruota attorno alla comunità maya ixil di San Felipe Chenla e alle terre che l’Enel ha acquisito da un proprietario terriero locale, Pedro Broll, che però aveva incamerato quelle terre proprio grazie alla guerra civile…
Sull’altro fronte, il ruolo giocato dall’attuale ambasciatore italiano nel paese, Mainardo Benardelli, è registrato almeno dal marzo scorso. In un comunicato diffuso dalle comunità maya si legge testualmente che il signor ambasciatore, assieme al signor Alain Wormser dell’Egp, «ha chiesto alle Autorità Ancestrali di presentarsi nei suoi uffici per far conoscere loro la situazione, tuttavia, mentre richiedevano questo dialogo, facevano pressione sul governo del Guatemala affinché il Presidente della Repubblica ordinasse la repressione» delle comunità. Altre testimonianze ci dicono inoltre di «visite personali» di Benardelli presso diversi protagonisti della protesta. In una di queste visite, l’ambasciatore avrebbe suggerito di non usare il termine «genocidio», ma piuttosto di sostenere l’esistenza di «difficoltà di comunicazione con le comunità o un disaccordo da parte di alcune persone».
In questo scenario, all’inizio di maggio le parti sembrano aver ripreso il dialogo, anche se gli indigeni denunciano di nuovo pressioni da parte dell’impresa e del governo. L’ultimo episodio in ordine di tempo è stato il furto dei timbri del «sindaco ausiliare indigeno» da apporre su presunti documenti di accettazione delle proposte dell’impresa, furto che diverse fonti attribuiscono a «lavoratori dell’Egp». Qualcuno continua dunque a giocare sporco, nonostante sia evidente che le comunità locali non stiano preparando la rivoluzione: vogliono solo essere consultate su un progetto che ha un impatto diretto sulla loro vita, secondo quanto disposto dall’articolo 6 Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e poter cogestire le risorse naturali del proprio territorio (articolo 15). Nulla di più. C’è da chiedersi se l’Enel – ed i governi guatemalteco e italiano dietro a lei – abbia intenzione di rispettare questo diritto. Le comunità locali un compromesso han dimostrato di volerlo accettare – chiedendo, per esempio, che il 20 per cento delle entrate del progetto sia gestito autonomamente dalla comunità stesse. Egp dice che la sua missione è produrre energia pulita. E anche se è discutibile il fatto che l’energia idroelettrica sia realmente «ecologica», il problema è un altro: è pulita un’energia la cui produzione si macchia di sangue indigeno?

Acqua “privata” in Messico

18 Maggio 2011 1 commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 18 maggio 2011.
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Inondazioni e siccità, questo il maggior contrasto ecologico di Città del Messico. Una metropoli con oltre venti milioni di abitanti – se comprendiamo tutta la macchia urbana – che vive questa alternanza fin troppo concreta. Certo, nonostante il cambiamento climatico che anche qui fa sentire tutti i suoi effetti, l’alternanza tra stagione delle piogge – prossima ad iniziare – e stagione «secca» continua ad esistere.
A complicare le cose, c’è il pessimo sistema di distribuzione delle acque nella valle che ospita la capitale messicana. Ma non solo: vi è pure la noncuranza o, meglio detto, l’interesse della classe politica. Solo poche settimane prima del vertice dell’Onu sul clima a Cancún (la sedicesima Conferenza delle parti sul Cambiamento Climatico, o COP16), il governo di Città del Messico, guidato da un centrosinistra ormai proiettato verso le elezioni presidenziali del 2012, aveva ospitato il Consiglio Mondiale dei Sindaci sul Cambiamento Climatico.
Dalla riunione era sorto il Patto di Città del Messico, in cui i rappresentanti politici s’impegnavano ad adottare misure autonome e «cittadine» per la riduzione dei gas serra. Tra queste misure vi è quella di «sviluppare strategie locali di adattamento per far fronte alle ripercussioni locali del cambiamento climatico, applicando misure per migliorare la qualità della vita dei poveri nelle aree urbane» (punto tre del Patto). Dev’essere per questa ragione che il sindaco-governatore di Città del Messico, il «presidenziabile» Marcelo Ebrad, ha recentemente promosso la possibilità di privatizzare l’acqua nella capitale da lui governata, incapace di comprendere il concetto di «beni comuni» pur premiato in passato con il Nobel.
Il 16 febbraio scorso dunque l’esecutivo locale ha inviato una proposta di legge con cui cerca di trasformare l’attuale ufficio amministrativo «Sistema delle Acque di Città del Messico» (SACM) in un’impresa parastatale con autonomia finanziaria e di gestione. L’idea, argomenta il governo, è quella di rendere più efficiente il servizio, ora soggetto ai capricci del Ministero delle Finanze e alla burocrazia locale.
Argomenti plausibili, ma che la cittadinanza conosce bene per averli ascoltati ogni volta che un’impresa o servizio pubblico sono passati a mano privata. Tra le facoltà che la nuova legge darebbe al Sacm vi è quella di vendere determinate quantità d’acqua ai privati perché questi, a loro volta, la rivendano all’utente finale; quella di permettere ai privati di partecipare nella costruzione di infrastrutture utili al servizio; quella, infine, di stabilire le tariffe del servizio svincolandosi dall’attuale controllo esercitato dal parlamento locale.
Le voci contrarie, denunciando l’imminente privatizzazione del servizio pubblico e dell’acqua, si sono immediatamente fatte sentire. E il governo ha dovuto frenare, suggerendo che la «patata bollente» è ora in mano del potere legislativo, già in preda alle pressioni dei settori privati – interessati al nuovo affare – e della società civile.
Ma mentre a Città del Messico il dibattito appena comincia e probabilmente riuscirà a limitare i danni di un’iniziativa legislativa dai chiari contorni elettorali, nel vicino Stato del Messico – che comprende buona parte della cosiddetta «area metropolitana» e dove governa l’altro possibile candidato presidenziale, Enrique Peña – la privatizzazione è già un fatto. Il 27 aprile il parlamento locale ha approvato la nuova Legge dell’Acqua che permette al governo di dare in concessione il servizio di distribuzione, raccolta e riciclaggio dell’acqua. Con buona pace del «patto di Città del Messico» e delle belle parole di Cancun.

Messico atomico

4 Maggio 2011 2 commenti
Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 04 maggio 2011.
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Il disastro nucleare che sta avvenendo in Giappone ha risvegliato, anche in Messico, il dibattito circa l’opportunità o meno di insistere sulla generazione di energia attraverso l’uso della risorsa nucleare. Attualmente in Messico circa il quattro per cento della produzione elettrica nazionale si realizza attraverso la centrale nucleare di Laguna Verde, situata sulla costa del Golfo del Messico, nei pressi del rinomato porto di Veracruz. Costruita negli anni 80, la centrale messicana ha cominciato a far funzionare il suo primo reattore nel 1990 per poi aggiungervi un secondo reattore qualche anno dopo.
Sebbene poche ore dopo il disastro nipponico, il governo si sia impegnato a sostenere che una eventualità simile non potrebbe mai accadere nella sismica terra messicana, il dubbio si fa largo, e diversi settori della società hanno cominciato a storcere il naso davanti all’ipotesi presentata solo pochi mesi prima dallo stesso governo: quella di attingere al nucleare quale nuova e ricca fonte energetica. Nel mese di dicembre appena passato, il governo messicano, anfitrione della Conferenza sul Cambiamento Climatico di Cancun (la famigerata COP16), aveva molto vantato la decisione di ridurre unilateralmente le emissioni di gas a effetto serra ricorrendo all’uso di «energie pulite».
Poche settimane dopo, lontano dallo sguardo indiscreto degli osservatori internazionali e con la presenza del solo pubblico (esperto) locale, l’impresa parastatale Commissione Federale di Elettricità (Cfe) e il Ministero dell’Energia presentavano pomposamente la Strategia Nazionale Energetica 2011-2025 che consiste nell’aumentare la produzione “pulita” di energia sino a un 35 per centro del totale nella data limite stabilita. Peccato che Georgina Kessel, attuale ministra dell’energia, includa tra le energie pulite appunto il nucleare. Certo, il 16 marzo una folta schiera di attivisti ambientalisti, accompagnati da uno sparuto gruppo di «esperti» del settore, aveva immediatamente chiesto al governo una revisione dell’attuale impianto di Laguna Verde e la messa in discussione del ambiziosa Strategia Nazionale già presentata.
Ma mentre nel mondo l’energia nucleare subisce un freno importante, in Messico le cose vanno avanti. Segno ne è la conferma della Strategia Energetica Nazionale, che ha visto un primo passo nell’annunciata intenzione di «rafforzare» la produzione di Laguna Verde di un 20 per cento grazie a due contratti firmati dalla Cfe con le multinazionali Iberdrola (Spagna) e Alstom (Francia).
Non solo: un altro segnale è l’intervento di voci importanti in campo scientifico a sostenere la necessità di ridurre l’emissione dei «gas di serra» e della dipendenza da combustibili fossili utilizzando l’atomo. Tra questi il messicano Mario Molina, premio Nobel della Chimica nel 1995, che il 5 aprile scorso ha dichiarato che in fondo la tragedia giapponese, pur essendo «un incidente molto serio», è comunque una sciagura «abbastanza locale» e quindi i messicani non devono preoccuparsi. Anzi, sostiene il Nobel messicano, «l’energia nucleare deve continuare ad essere una delle nostre opzioni perché sappiamo che con le tecnologie moderne i rischi (di incidenti) possono essere ridotti enormemente».
Neanche l’anniversario della tragedia di Chernobyl ha aiutato la diffusione del messaggio lanciato dagli ecologisti. In Messico l’energia nucleare è un futuro possibile e senza referendum tra i piedi giacché nella legge messicana non esiste. Con quali soldi, non si sa. Con quali imprese coinvolte, neanche. L’importante è che il progetto vada avanti… a tutto atomo.

Messico in fiamme

22 aprile 2011 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 22 aprile 2011.
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Incendio in Coahuila

Il Messico brucia in queste settimane. Non si tratta solo dell’incendio sociale provocato dall’insana e perversa «guerra al narco» che confronta governo e cartelli in un conflitto ogni giorno più cruento che sta metaforicamente bruciando gli ultimi legami sociali ancora esistenti nel paese. Si tratta invece di vero e proprio fuoco. Ormai da oltre un mese – dal 17 marzo scorso – lo stato settentrionale di Coahuila, confinante con gli Stati Uniti è in fiamme. Un enorme incendio, cominciato ufficialmente a causa di due fulmini improvvisi, che si starebbe alimentando grazie alle condizioni favorevoli causate da oltre sette mesi di aridità diffusa.

Al momento di scrivere queste linee, sarebbero ormai oltre duecentomila gli ettari andati in fumo solo in questa zona. Almeno mille – cifra «storica», dice il governo – tra uomini della protezione civile, dell’Esercito e volontari di diversa provenienza stanno provando a soffocare le fiamme. A soccorrerli, non solo elicotteri ed aerei del governo messicano, ma anche mezzi aerei – tra cui un Boeing 747 – provenienti dagli Stati Uniti. Eppure, le fiamme non si spengono. Il forte vento ma anche le elevate temperature – fino a 40 gradi centigradi – di queste settimane non aiutano. Recentemente, l’imprenditore statunitense Jerry Faubert, proprietario dell’impresa AirLInk specializzata nel soffocare incendi, ha dichiarato: «È il fuoco perfetto, c’è di tutto, combustibile, vento e caldo ed è impossibile spegnerlo». Ed ha aggiunto: «Possono – i messicani – sperare di controllarlo per minimizzare i danni che causa all’ambiente ed alle infrastrutture, però non lo spegneranno, solo Dio lo può spegnere, nessun altro». Esagerato? Forse, il tempo lo dirà. Quel che è certo è che degli incendi registrati quest’anno che, secondo dati ufficiali, avrebbero già bruciato il 58 per cento del totale di ettari bruciati nel 2010, solo l’un per cento si dovrebbe a «cause naturali». Il resto, a cause «umane»: attività agricole, attività agricole «illecite» (narcotraffico?), focolari di villeggianti, soprattutto.

Intanto, a dare il segno dei tempi vi è anche un’altra emergenza: le radiazioni ultraviolette, che non infiammano nulla, ma bruciano la pelle dei cittadini di Città del Messico. L’allarme è di poche settimane fa: il caldo straordinario di questi giorni sarebbe accompagnato dall’elevata intensità radiale dei raggi UV. Per diversi giorni, la capitale messicana ha raggiunto il livello 12 (di 15 massimi) di esposizione ai raggi UV che corrisponde ufficialmente al livello narrativo «estremamente alto». E quindi, nonostante i quasi trenta gradi all’ombra che registra la capitale messicana, è bene coprirsi con vestiti dalle maniche lunghe. O, meglio ancora, non esporsi in modo prolungato alla luce solare. Pena, non solo una repentina abbronzatura (o scottatura), ma il rischio serio di futuri tumori.

Pochi ci hanno fatto caso, ma mentre l’emergenza solare occupava le pagine dei giornali locali, a Vienna, la Organizzazione Metereologica Mondiale (Omm) dell’Onu ha emesso un comunicato lo scorso 5 aprile in cui avverte che «la diminuzione dello scudo d’ozono ha raggiunto livelli senza precedenti nell’Artico questa primavera a causa dei gas presenti nell’atmosfera e delle temperature estremamente basse dell’inverso appena trascorso». La Omm afferma che quest’inverno vi è stata una perdita di ozono vicina al 40 per cento, cifra che costituisce un record assoluto. Caldo e radiazioni dunque e il Messico brucia. Tutta una coincidenza?

Il Messico scopre il litio

21 ottobre 2009 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 21 ottobre 2009
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L’impresa Pietro Sutti SA, d’origine evidentemente italiana ma oggi molto messicana, ha annunciato il 7 ottobre scorso la scoperta di un ingente giacimento di litio e di potassio in Messico. La notizia potrebbe passare inosservata, ma ha scosso la borsa di New York e ha solleticato gli interessi di mezzo mondo. E la ragione è proprio il litio. Questo minerale è essenziale nella produzione di batterie ricaricabili per automobili e quant’altro domani si muoverà senza l’uso del petrolio – e se questa è la tendenza prevedibile nell’imminente futuro, è evidente l’interesse delle grandi multinazionali per questo nuovo giacimento. Così, non ha torto il signor Martín Sutti Courtade, direttore generale di questa piccola impresa sinora sconosciuta, a dire che la scoperta potrebbe avere «un grande impatto sul mercato internazionale».
Il litio è quotato 750 dollari al chilo alla Borsa di Toronto, e la piccola impresa messicana spera in contratti milionari con grandi multinazionali del minerale – che possiedono la tecnologia per l’estrazione e la lavorazione del minerale. Il giacimento si trova tra gli stati di San Luis Potosì e Zacatecas, nel centro nord del paese, su un’estensione di almeno 60.000 ettari. Secondo i calcoli presentati alla stampa, vi potrebbero essere almeno 2 milioni e mezzo di tonnellate del minerale. E siccome la Pietro Sutti SA non ne ha le capacità, allora il diritto di sfruttamento e lavorazione del prezioso minerale sarà ceduto a qualche grande impresa multinazionale. L’imprenditore messicano ne ha già citate alcune canadesi e statunitensi, come la Cormark Securities Inc e la Industry Report, ma forse anche imprese cinesi, coreane e australiane. In particolare, vi sarebbero negoziati in corso con la LG, coreana, che punta tra l’altro alla costruzione di batterie per automobili.
La Pietro Sutti SA avrebbe già ottenuto tutte le concessioni sia per l’esplorazione che per l’estrazione del minerale. La scoperta infatti sarebbe avvenuta già qualche mese fa, ma l’impresa messicana avrebbe tenuto il segreto sino al giorno in cui il governo messicano le ha concesso tutti i diritti. Una procedura lunga, quella delle concessioni: ma per niente impossibile, in un paese come il Messico dove ormai tutte le risorse naturali vengono vendute al miglior offerente. Ed allora è facile capire che l’entusiasmo abbia conquistato presto anche le piazze commerciali internazionali che vedono in Messico la possibilità di sfruttare in pratica senza vincoli il sottosuolo.
C’è un’altra ragione di tanto entusiasmo: sino a pochi giorni fa le speranze di ottenere litio portavano tutte in Bolivia, dove, nella regione del Uyuni, vi sarebbe il più grande giacimento al mondo. Martín Sutti lo ha chiarito subito: in Messico vi potrebbe essere un giacimento ancor più grande di quello boliviano. Il che faciliterebbe molto le cose alle imprese multinazionali. In Bolivia, infatti, la presidenza indigena guidata da Evo Morales non ci sente dall’orecchio dello sfruttamento privato delle risorse naturali: ripete che le risorse naturali della Bolivia sono dei boliviani; le imprese che vogliano sfruttare i nostri giacimenti, dovranno fare i conti con questo fatto. Ma ora c’è un’alternativa nel giacimento messicano. L’impresa messicana ha annunciato anche che l’estrazione potrebbe cominciare già nel 2011, quando si prevede possa essere pronta la prima istallazione adatta a tale scopo. E in barba a qualsiasi norma ambientale, l’estrazione potrà avvenire a cielo aperto, dato che il minerale si troverebbe a pochi metri di profondità.

Uomini di mais, transgenico

18 marzo 2009 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 18 marzo 2009
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Il Messico è la culla del mais. Con le sue 60 varietà autoctone e oltre 2000 adattate detiene un patrimonio enorme. Non per nulla i messicani, soprattutto in ambito indigeno, si definiscono «le donne e gli uomini di mais». Eppure, questa ricchezza nazionale e culturale sembra interessare poco ai governanti del paese.
Già nel 2001 ricercatori di diverse istituzioni andavano denunciando la presenza di mais transgenico in certe regioni (soprattutto nello stato meridionale di Oaxaca). Pochi gli facevano caso, a cominciare dal governo che li segnalava come provocatori. Poi nel marzo 2005 il Congresso messicano ha approvato la nuova Legge di Biosicurezza di Organismi Geneticamente Modificati. Esplosero le polemiche, soprattutto tra le organizzazioni contadine e ambientaliste messicane, che la chiamarono «legge Monsanto». La normativa, che permetteva la sperimentazione di coltivazioni transgeniche in suolo messicano, ha subito importanti modifiche lo scorso 6 marzo, con un nuovo regolamento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della federazione. Le nuove norme trasformano il «Regime di protezione speciale del mais» da strumento giuridico, quindi vincolante, a strumento informativo e dunque non obbligatorio. Inoltre, la legge che permette la sperimentazione prevede anche i programmi sperimentali siano sempre e comunque sovvenzionati dal governo. In pratica, ora chiunque potrà seminare mais transgenico senza doversi sottomettersi alle restrizioni di legge, e a spese dell’erario pubblico. Via libera dunque alla sperimentazione transgenica anche sul mais.
Le conseguenze e i rischi sono molti. Da un lato, denunciano le Ong del settore e le organizzazioni dei contadini, vi sono i rischi per la salute. Spiegano che non vi sono studi sufficientemente ampli ed approfonditi che garantiscano l’assenza di rischi, non solo per il mais commestibile, ma anche per quello che già da anni si utilizza per la fabbricazione di plastiche biodegradabili e antibiotici. Un altro aspetto, spiegano i ricercatori della Unione degli scienziati impegnati con la società, è che «il governo federale garantisce l’impunità a coloro che contamineranno con semi transgenici i campi del paese e mette in serio pericolo la sovranità alimentare del Messico». Così inoltre si aprono le porte alla multinazionali del settore, denunciano, visto che in Messico l’85% dell’agricoltura è in mano ai piccoli produttori.
Appare chiaro dunque che la strategia delle multinazionali, oltre a far approvare leggi a loro favorevoli, è quella di deruralizzare il paese, ovvero obbligare i contadini e piccoli produttori a usare i loro semi, magari contaminando i campi nel paese (a oggi, sono 6 gli stati messicani in cui si è potuto trovare mais transgenico). Ma in un panorama in cui, tra Trattato di Libero Commercio (Nafta) e mancanza quasi assoluta di qualsiasi sussidio all’agricoltura, i contadini messicani sono già la prima categoria produttiva del paese ad affollare le liste di migranti verso nord, questa nuova iniziativa del governo in appoggio alle multinazionali dell’alimentazione rischia di sancire una volta per tutte il monopolio dell’industria agricola multinazionale sulla produzione locale di mais.
È per questo che Elena Álvarez Buylla, dell’Unione degli Scienziati, avverte il governo messicano: «Se non si impone una moratoria sul mais transgenico, non solo si pongono in pericolo le varietà autoctone, ma si relegherà i piccoli produttori a essere parte di lucrativi affari delle imprese private».

Guerra alla plastica

25 febbraio 2009 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 25 febbraio 2009
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È un fine settimana qualunque a Città del Messico. Il giorno migliore per andare al supermercato a fare la spesa per la settimana. Dall’ipermercato escono ogni minuto 23 famiglie con i loro acquisti conservati nelle loro 184 borse di plastica. Da quel momento in poi, il futuro di quelle borse di plastica si affida al destino. O alla volontà di chi ne è diventato possessore. Perché, spiegano gli specialisti del Ministero dell’Ambiente della capitale messicana, effettivamente non esiste alcun piano di smaltimento di questo tipo di rifiuti. E le conseguenze stanno rapidamente trasformandosi in un emergenza. Almeno questo è ciò che segnalano i sondaggi e gli studi scientifici commissionati ad hoc. Secondo recenti studi di Greenpeace e dell’Agenzia di Protezione Ambientale degli Usa, nel mondo ogni persona consuma 6 borse di plastica al giorno. I sacchetti vengono per altro usati solo per una media di 12 minuti. Di questa quantità solo l’1% si ricicla.
In Messico, invece, secondo la Commissione Ambiente del senato, si consumano attorno ai due milioni di borse al giorno. Una cifra che spaventa il governo locale, ma che lascia indifferenti i responsabili del settore a livello federale.
Se infatti il governo, attraverso il rispettivo Ministero, segnala che «il problema è grave perché occlude gli scarichi dell’acqua e provoca inondazioni durante la stagione delle piogge», i secondi minimizzano e spiegano che le borse di plastica «costituiscono appena l’1% dei rifiuti di tutto il paese». Ed in effetti, i dati del Ministero federale parlano chiaro: dei 135 milioni di rifiuti che ogni anno il Messico produce, solo 107mila sarebbero buste di plastica. Eppure, altre statistiche dello stesso dicastero ma presentate separatamente, contraddicono la versione ufficiale: in Messico si producono poco più di 390mila tonnellate di borse di plastica, vi è dunque un ammanco di oltre 200mila tonnellate. Sarà anche vero che, come dimostrano i sondaggi, i messicani riutilizzano sino al limite massimo le borse di plastica, ma la differenza tra rifiuti calcolati e rifiuti potenziali è davvero enorme.
Quel che non si dice, invece, è che la produzione di tale quantità di borse di plastica genera un profitto di oltre 350 milioni di dollari all’anno. Una cifra niente male soprattutto se si considera che in Messico sono solo 25 le imprese che si dedicano alla produzione di buste di plastica. A rivendicarlo è l’Associazione Nazionale dell’Industria della Plastica (Anipac), la quale sostiene non solo che l’inquinamento prodotto dalle borse è minimo, ma che «sarebbe sconveniente legiferare per ridurne l’uso». La realtà invece sembra dimostrare che l’emergenza esiste davvero e va affrontata. Questa infatti sembra essere l’intenzione del governo di Città del Messico, che avrebbe messo allo studio una proposta di legge per indurre i grandi distributori di questo temibile agente inquinante a ridurne l’uso. Come? Imponendo una tassa sulle borse che le grandi catene distribuiscono sino a oggi gratuitamente. I dati infatti dimostrano anche che oltre il 30% di questo prodotto è messo in circolo proprio dalle 38 catene di supermercati, il resto da gli altri negozi. L’idea, spiegano i funzionari del governo locale, è quello di promuovere l’uso di borse riciclabili.
Son diventati ambientalisti nel governo della capitale? Forse. O forse solo stanno dietro ai sondaggi, anche loro. Questi infatti dimostrerebbero che oltre la metà dei cittadini della capitale vorrebbe ricevere borse di carta al supermercato e oltre il 90% considera questo un serio problema ambientale.

Manca l’acqua

6 febbraio 2009 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 6 febbraio 2009
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In una città che conta ufficialmente con 8 milioni di abitanti, ma che in realtà ne ha quasi venti se consideriamo tutta la zona metropolitana che sconfina nel vicino Stato del Messico, l’acqua può essere un problema. Da diversi anni, la minaccia è lì, presente all’orizzonte, a segnare un destino possibile e probabile, ma sempre rimandato. Almeno sino a qualche settimana fa. Dal 30 gennaio, infatti, il governo locale ha annunciato il nuovo piano di Gestione Integrale dell’Acqua, con il quale si applicheranno restrizioni periodiche nella fornitura in 13 (per ora) delle 16 delegazioni amministrative della capitale messicana. La mancanza d’acqua, dicono le autorità locali, si deve soprattutto allo scarso rifornimento che starebbe soffrendo il sistema del fiume Cutzamala che conta con sette dighe e che apporta il 24% dell’acqua in città, ovvero sedicimila dei sessantaquattromila metri cubici al secondo consumati in città. Un problema antico, in realtà, che pone in crisi oggi non solo i poveri di sempre, quelli che vivono nei quartieri orientali, ma che comincia a colpire anche il resto della città.
Il problema, spiegano le autorità, dovrebbe prolungarsi sino a maggio – periodo in cui dovrebbe ricominciare la stagione delle piogge – e, secondo calcoli ufficiali, dovrebbe lasciare temporaneamente senz’acqua almeno 5 milioni di cittadini. Per far fronte al problema il governo locale ha organizzato un complesso sistema di trasporto d’acqua con l’utilizzo di oltre 400 autocisterne che sostituiranno il sistema di distribuzione ormai privo di pressione e d’acqua. Ma l’altro grave problema, segnalato dai più anche se da pochi affrontato, è la realtà di una rete idrica ormai vecchia e che, secondo i calcoli ottimisti del Sistema dell’Acqua di Città del Messico, ente del governo locale, causerebbe la perdita del 35% del liquido in fughe sotterranee.
E ciononostante, la crisi dell’acqua giunge in un periodo delicato. In luglio ci saranno elezioni federali per rinnovare parte del Congresso federale e già c’è chi accusa la Commissione Nazionale dell’Acqua (Conagua), ente federale, di far il lavoro sporco del governo di destra: attaccare la politica sociale del governo di centrosinistra della capitale messicana. Non solo dichiarando la crisi dell’acqua, che è reale, ma anche aumentando proprio in queste settimane i prezzi della fornitura del liquido vitale. «La Commissione non può fare la parte di un ente politico», accusa il governatore di Città del Messico. Ma le autorità federali negano qualsiasi coinvolgimento. E al governo guidato dall’opposizione non è restato altro che annunciare l’incremento dei sussidi al pagamento dell’acqua.
«Ha piovuto poco l’anno scorso», dicono i ben informati della Conagua. Eppure i cittadini dicono il contrario. La pioggia è caduta nel 2008 e anche abbondante. E, aggiungono gli ecologisti, «affidare tutto alla future piogge è un’illusione pericolosa». Quel che è vero, spiegano, è che è giunto il momento di cambiare le abitudini dei cittadini in quanto al consumo: non più sprechi, razionalizzare l’uso dell’acqua senza limitarne l’uso da parte dei cittadini: «La città non può continuare così. È giunto il momento di fare un bilancio onesto e cambiare le nostre abitudini». Un esempio su tutti, spiegano: «Un cittadino della capitale che fa un uso ‘negligente’ dell’acqua può utilizzare oltre 500 litri al giorno. Noi calcoliamo che utilizzando l’acqua in modo più efficiente si può ridurre l’uso personale sino a 137 litri al giorno».

Cibo "chatarra" e obesità

26 novembre 2008 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 26 novembre 2008
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Lo chiamano così, chatarra, che, a guardare sul dizionario della Real Academia de la Lengua (spagnola), starebbe a indicare le scorie dei metalli, ma che in Messico è ormai entrato a far parte di quel linguaggio del disprezzo che indica anche il cibo. Cibo di pessima qualità, quasi di scarto, anche se è venduto in pacchetti colorati e attraenti. Il tipo di cibo che nei vicini Stati uniti, a nord della frontiera, è indicato con la parola junk (spazzatura). Parliamo delle patatine fritte e annessi che qui in Messico vanno come da noi il pane. Nemmeno le tortillas hanno tanto successo. Di tutti i colori, sapori, forme e dimensioni, le fritture industriali alimentano questo paese dove pure la cucina è così varia e buona.
Si calcola che il Messico sia il secondo paese al mondo per consumo di bibite gassate. Non bastassero le due grandi firme nord americane, in Messico esistono almeno altre tre marche che inondano il mercato di bollicine. Nel paese che ha frutta tutto l’anno e dove di moda erano i frullati che toglievano la sete a tutti, oggi la frutta resta nei negozi e si esporta, e si sostituisce con le bibite colorate. D’altra parte, se un ex amministratore della CocaCola può fare il presidente in Messico, perché i suoi cittadini dovrebbero rinunciare a berla? Solamente perché il Messico è anche il secondo paese al mondo per diabete e obesità infantile? Non è il caso. Il governo decide di non garantire la buona alimentazione dei suoi cittadini e così, nonostante vi siano almeno quaranta milioni di poveri in terra azteca, ben oltre un terzo della popolazione (107 milioni di abitanti, di cui oltre 18 milioni concentrati nella sola area metropolitana della capitale), in Messico 7 persone su 10 sono colpite da qualche malattia legata alla cattiva alimentazione: un paese di denutriti per mancanza di cibo e di obesi per la pessima alimentazione.
Il Sondaggio nazionale sulla salute e la nutrizione realizzato dal Ministero della Salute federale nel 2006 e presentato solo qualche settimana fa fornisce un buon quadro della situazione. Nello studio si dice infatti che circa il 30% dei bambini messicani e addirittura il 70% degli adulti soffre del problema dell’obesità. Sull’altro versante si parla di ben nove milioni di bambini sotto la soglia della nutrizione. Ma quel che risulta ancor più interessante è la distribuzione geografica di questi dai. Risulta infatti che sono le zone del centro e del nord del paese che soffrono l’obesità e le sue conseguenze. Nel sud del paese, al contrario, la denutrizione raggiunge limiti allarmanti, tant’è che lo stesso Ministro della Salute José Angel Córdova ha dovuto ammettere «il debito dello stato verso le regioni meridionali del paese». Persiste infine anche il problema dell’anemia, soprattutto nei più giovani. Il sondaggio rivela che uno su cinque bambini messicani soffre di mancanza di ferro.
E così una generazione dietro l’altra cresce con cibi saturati di grassi e zuccheri per la cui produzione si utilizzano sostanze dannose per la salute come gli antibiotici, sapori artificiali e ormoni della crescita.
È lo stesso Dipartimento di Epidemiologia del Ministero della Salute che denuncia, ormai da sette anni a questa parte, che la prima causa di morte in Messico non sono più le malattie infettive bensì il diabete e le malattie cardiovascolari. Così crescono coloro che tutti continuano a chiamare il futuro, il domani, ma che in realtà sono l’oggi: un presente di falsa abbondanza alimentare e scarsissima capacità nutritiva.

In auto a Città del Messico

11 novembre 2008 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 11 novembre 2008
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Città del Messico è una rete. Una ragnatela di strade, ponti, sopraelevate e gallerie. Su ognuna di queste vie di comunicazione, grandi e piccole, viaggiano ogni giorno milioni di automobili, autobus e camion di ogni dimensione. E spostarsi in questo reticolo non è facile né rapido. Certo per la carente segnalazione che non permette di comprendere esattamente dove si va, soprattutto a chi la città non la conosce bene (o ne conosce solo una parte, essendo così estesa); ma soprattutto per l’eccessivo numero di automobili che vi circolano. Tant’è che molti cittadini si ritrovano a trascorrere ore nel pubblico trasporto: come lo studente del nord della città, che per arrivare all’Università pubblica (a sud) deve uscire di casa con almeno due ore d’anticipo. Un inferno.
Il Centro per il trasporto sostenibile (Cts) di recente ha tenuto il suo congresso nazionale in Messico. E innanzitutto ha presentato un quadro della situazione attuale proprio nella capitale messicana. I dati sono sconcertanti. Il transito di veicoli nella megalopoli messicana causa la perdita di 3.347.200 ore-uomo – sì, avete letto bene – al giorno, il che si traduce nel fatto che un abitante di questa città passerebbe in media cinque anni della sua vita «incastrato e stressato» nella congestione generata dal traffico. Questa situazione poi si deve confrontare con il tasso di «motorizzazione» della città. Infatti, a fronte di un tasso di natalità annuale che varia tra l’1 e il 2%, il tasso d’acquisto di nuovi veicoli è attorno al 7,5%, ovvero a Città del Messico si comprano più automobili dei figli che si procreano. Questa situazione paradossale, ma assolutamente reale, ha portato a una città in cui le cosiddette «ore di punta» del traffico sono cresciute a 15 al giorno, cioè in pratica tutto il giorno, E se la velocità media delle automobili in città è oggi di appena 13 chilometri orari, ci si domanda dove andremo a finire tra dieci anni, quando si prevede che, secondo gli attuali tassi, solo a Città del Messico circoleranno almeno 6 milioni di veicoli.
A questi dati duri, va aggiunta l’analisi sull’impatto sulla qualità della vita dei cittadini-automobilisti. Il Cts sostiene che l’uso indiscriminato fatto oggi dell’automobile quale mezzo di spostamento, anche sulle brevi distanze, contribuisce enormemente al fatto che il Messico oggi sia il secondo paese al mondo (dopo gli Usa) per numero di obesi. A questo concorre anche il fatto che l’alimentazione in Messico oggi si è trasformata drasticamente con l’introduzione di alimenti poco nutritivi e ricchi di grassi. Ma se questo non bastasse, il Cts cita studi realizzati presso l’Università di Berkeley in California per sostenere che le persone che vivono vicino alle grandi arterie di comunicazione veicolare – moltissime delle quali si trovano anche in pieno centro o in zone densamente abitate – sviluppano meno amicizie, meno relazioni sociali, il che si traduce nel fatto che «la dipendenza dall’automobile sta anche disgregando la nostra società e generando una diseguaglianza ancora più acuta».
Tutto ciò è evidentemente conseguenza della mancanza di una rete efficiente, sicura e rapida di pubblico trasporto. Certo, ammette il Cts, alcuni passi son stati realizzati: come l’introduzione del Metrobus, autobus con corsia preferenziale sulle maggiori arterie della città, il che ha dato come risultato quello di far abbandonare l’automobile ad almeno 15.000 cittadini. Ma molto c’è da fare, sostengono, perché ogni anno 200.000 automobili si aggiungono alla massa di veicoli che intasa la città.

Muore Xochimilco

5 novembre 2008 1 commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 5 novembre 2008
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Secoli fa, quando i mexica giunsero nella valle che avrebbero poi trasformato nella culla della loro civiltà, la azteca, incontrarono una popolazione locale che cacciarono senza pensarci due volte. Li mandarono a sud dell’enorme lago che occupava allora la valle, dicendo loro: «Coltivate là!». Peccato che «là» era l’estensione meridionale dell’enorme lago e di terra da coltivare ce n’era poca. Allora i creativi si misero all’opera e inventarono le chinampas: appezzamenti di terra galleggianti, realizzati attraverso l’attentissimo intreccio di rami e fogliame e fissati al fondo del lago grazie ad alcuni alberi locali le cui radici si prolungano nell’acqua sino raggiungere il basso fondale. Da allora, le chinampas sono parte della cultura locale che ha preso il nome di cultura xochimilca. Da questa l’attuale territorio di Xochimilco, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco, chiamato la «Venezia messicana» per la peculiare composizione del territorio, diviso da lunghi e articolati canali separati dalle chinampas appunto, su cui si coltiva di tutto, soprattutto mais e fiori. Qualche settimana fa però l’Assemblea legislativa di Città del Messico, il parlamento locale, ha rivolto un’esortazione al ministero degli interni federale perché dichiari Xochimilco – e alcuni territori contigui – zona di disastro ambientale. E purtroppo di ragioni ve ne sono molte. La prima è che il lago soggiacente alle chinampas si sta lentamente prosciugando, perché la città continua nonostante tutto a succhiare acqua. Poi ci sono le decine di migliaia di costruzioni irregolari sulle chinampas, sorte per ospitare la sempre maggior quantità di persone che cercano di farsi una vita in questa valle diventata negli anni una delle alternative, assieme all’emigrazione verso gli Usa, alla disoccupazione delle aree rurali messicane. Gli insediamenti irregolari sarebbero 300, secondo dati del governo che ormai dal 2001 per legge doveva porre rimedio alla situazione individuando migliori luoghi per l’insediamento umano. L’altro problema è l’inquinamento dovuto alla presenza eccessiva di umanità: scarichi abusivi, e di tutto. D’altra parte, dicono gli abitanti locali, è troppo costoso costruire fognature o discariche asettiche speciali per le chinampas. E poi il lago, o quel che ne rimane, continua a raccogliere anche gli scarichi della «terra ferma» di altri demarcazioni territoriali.
Per porre rimedio a questa tragica situazione che rischia di far scomparire il patrimonio naturale e culturale della zona, nel corso degli anni, sono stati destinati milioni e milioni di pesos di fondi pubblici e internazionali. Eppure, i fondi di conservazione inviati dall’Unesco son stati spesi per rimodellare il centro storico di Xochimilco con opere dai più criticate per il fasto e l’eccesso, e di pochissima utilità sociale. Sul fronte dei finanziamenti pubblici, solo l’anno scorso son stati spesi 2 milioni e mezzo di dollari per la conservazione della zona. Cifra insufficiente, tant’è che l’attuale amministrazione locale ha chiesto ben 50 milioni di dollari per l’anno prossimo per la stessa finalità. Un’esagerazione? Dicono di no, visto che c’è da riabilitare l’equilibrio ecologico di ben 42 chilometri di canali, piantare almeno 11.000 alberi autoctoni – l’ahuejote – e combattere le piaghe diffuse in questi anni: dal verme malacologico al vischio e i muschi che soffocano le piante native.

La qualità e i diritti

21 ottobre 2008 Lascia un commento
Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 21 ottobre 2008
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Città del Messico è proprio strana. Ma come si fa a giudicare la qualità della vita di questa megalopoli? Certo, camminando per le strade si direbbe che fa tutto schifo: sporcizia, traffico, rapine, sequestri, corruzione, prezzi altissimi, cementificazione dilagante, servizi medici di dubbia qualità, sovraffollamento. Ma poi, uno apre il giornale e legge: «Il coordinatore dei deputati del Partito della Rivoluzione Democratica (Prd) dell’Assemblea Legislativa di Città del Messico ha presentato una proposta di legge per la depenalizzazione della marijuana». La notizia, al di là delle passione per la pianta e i suoi effetti, apre il cuore: perché tende a rompere quel muro di silenzio che in Messico – e non solo – accerchia la millenaria pianta.
Nonn solo. la proposta legislativa va nella direzione intrapresa da certi settori in questa città. Per questo che è sempre più difficile capire se in questa enorme metropoli si sta bene o no. Quel che è vero è che nonostante tutto, a partire dalla precedente amministrazione, vi sono in città 5 sedi della nuova Università Autonoma di Città del Messico, completamente pubblica e gratuita, e 17 sedi di scuola superiore – più cinque sedi da costruire nei prossimi due anni – anch’essa pubblica e gratuita. Chiaro, oltre a costruire queste scuole di assoluta importanza sociale e di alta qualità didattica, la precedente amministrazione ha cementificato ulteriormente la città. E siccome spazio orizzontale non ve n’era, fece costruire chilometri e chilometri di ponti e cosiddetti «secondi piani» che attraversano la città sorvolando la strade già costruite. Per risolvere il problema del traffico, si diceva. Invece lo ha peggiorato. Venne poi Ebrad. E tutti si spaventarono, perché sarà pure un bell’uomo, ma di sinistra ha ben poco: Marcelo Ebrad, ex Pri, il partito della «democrazia autoritaria stile Messico», ma oggi convinto Prd, ex ministro locale della pubblica sicurezza. All’epoca del suo mandato alla guida della polizia locale, mandò a chiamare a Rudolph Giuliani perché venisse a insegnare ai messicani le regole d’oro della «tolleranza zero». Giuliani arrivò, ma tutto crollò davanti all’inevitabile e apparentemente insanabile corruzione tra le file della forze di pubblica sicurezza. Ma aneddoti a parte, sotto la sua amministrazione vi sono state due conquiste che farebbero impallidire tutto il continente e anche alcuni paesi delle cosiddette democrazie europee. Oggi a Città del Messico le «coppie di fatto», eterosessuali o gay che siano, sono pienamente riconosciute in tutti i loro diritti. Non ci si può sposare tra gay, va bene, ma i diritti di coppia sono riconosciuti. L’altra importante novità: l’aborto è legale sino le dodici settimane. E così, dopo Cuba, Città del Messico è l’unico luogo in America Latina dove si può interrompere una gravidanza senza nascondersi, senza commettere peccato penale, pur conservando il rischio di una scomunica nel cattolicissimo Messico. Poco male, almeno si morirà di meno per aborto.
Sono diritti da primo mondo, dice qualcuno. Ed in effetti, i diritti elementari ancora son lontani dall’essere pienamente conquistati: il diritto alla casa, all’alimentazione sana, alla salute, alla sicurezza ed alla sicurezza sociale. Contraddizioni? Forse no. Solo una certa coerenza con il paradosso di un paese con quaranta milioni di poveri, ma con una grande ricchezza culturale ed umana. Si sta bene a Città del Messico? Ancora no, ma da qualche mese di sta un po’ meglio.

Le maree di Calderon

21 luglio 2008 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 22 luglio 2008
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La stagione delle piogge è ricomincata in Messico. Tra timori e nefaste previsioni. Sono infatti trascorsi solo otto mesi dalla tragedia che a fine ottobre dell’anno scorso vide allagarsi oltre l’80% del meridionale stato messicano di Tabasco. Un’inondazione «normale», come ne accadono ogni anno ormai da diversi decenni. Ma quella dell’anno scorso ebbe due peculiaritá: la velocitá di innalzamento delle acque e la quantitá della stessa. Si venne poi a sapere che la Commissione federale di elettricitá (Cfe) aveva dato l’urgente ordine di aprire l’ultima delle quattro dighe su fiume Grijalva (la diga Peñitas), che dal confinante stato del Chiapas giunge sino in Tabasco. «Uno sfogo necessario», lo chiamarono i tecnici dell’ente federale, perché l’acqua non trabocasse danneggiando la struttura della diga. Qualche giorno dopo, il 4 novembre, pochi chilometri a valle di Peñitas una montagna crolló sul fiume seppellendo, al suo passaggio, un intero villaggio. 25 i morti, vittime di una montagna che aveva subito le torrenziali piogge del sud messicano per secoli e che, a causa delle infiltrazioni d’acqua, aveva deciso di scendere a valle.
Eppure quel fatidico mese d’ottobre non piovve poi così tanto, non oltre la media degli ultimi anni. Dati forniti dalla Commissione nazionale dell’acqua (Conagua) rivelarono che le precipitazioni di fine ottobre 2007, pur essendo abbondanti a causa di una cosidetta tormenta tropicale presente sullo Yucatan, non superarono la media degli ultimi dieci anni. Cosa accadde dunque?
Secondo la versione ufficiale, che il presidente Calderon si affrettó a sostenere in un discorso a reti unificate pochi giorni dopo le due tragedie, furono due la cause delle tragedie: la prima le ingenti piogge – tesi giá smentita dai dati ufficiali -; la seconda, il ciclo lunare – attribuendo ai fiumi ed ai laghi artificiali le proprietá del mare. Insomma, tutta colpa della luna, dietro la quale Calderon si è nascosto per non rispondere alla domanda su chi sarebbe dovuta ricadere la responsabilità di questa ennesima tragedia.
Nessuno ha mai risposto alla domanda: perché Peñitas conteneva tanta acqua? Perché non svuotarla prima? La risposta è semplice e tragica allo stesso tempo. Far uscire acqua da Peñitas avrebbe significato farla «turbinare», ovvero farle produrre elettricitá. E allora? Di energia elettrica non vi era bisogno, o meglio detto, non di quella di Peñitas. Perché a poche centinai di chilometri, al confine tra Tabasco e Campeche – altro stato messicano – vi è la piú grande centrale elettrica turbogas privata. E la Cfe ha un contratto con l’impresa gestrice che vincola il governo messicano ad acquistarle energia sino al 2015. È dunque necessario produrre meno energia pubblica e per farlo, almeno nel caso di una centrale idroelettrica, bisogna trattenere piú acqua. Peccato che effettivamente la pioggia sia stata tanta, e i tecnici della Cfe – inutili strumenti in mano ai politici privatizzatori – non abbiano fatto bene i calcoli. Della frana che dire? Un evento naturale? Forse. O forse semplicemente il fatto che anche la diga a monte di Peñitas, la Malpaso, fosse al limite e c’era bisogno di un «tappo» sul fiume che bloccasse lo sfogo che c’è stato anche lí.
Speriamo che quest’anno Chac, dio maya della pioggia, e Dolár, dio neoliberale della ricchezza, si mettano d’accordo e non facciano pagare a milioni di poveri le necessitá del primo e le avarizie del secondo.

Vendetta su Tlaloc

9 luglio 2008 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul giornale italiano Il Manifesto il giorno 9 luglio 2008
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Quando Hernán Cortes, il conquistarore spagnolo, attraversó il passo che divide i due grandi vulcani, il Popcatepetl e Iztaccíhuatl, si trovó davanti un enorme lago. Ne aveva sentito parlare, lí c’era il temibile imperatore dell’Impero Mexica (o azteca, come preferite) che soggiogava metá della terra che oggi conosciamo come Messico. Ma quel che non si aspettava Cortes era il fatto di trovarsi davanti una cittá dalle dimensioni modeste forse, ma al centro di un lago di oltre 1000 kilometri quadrati di superfice. Oltre tre volte il Lago di Garda, per intenderci.
Oggi, all’attraversare il medesimo passo quasi alpino ci si trova difronte ad un altro scenario: oltre 2000 kilometri di macchia urbana. Questa é Cittá del Messico. Quella che con nostalgia qualcuno assimila a Venezia, pur riconoscendone che le dovute differenze. A partire dal fatto che qui, i conquistadores, vennero e distrussero in poco piú di due secoli il sistema idrico d’avanguardia che permetteva alla popolazione locale – agli imperatori e sacerdoti, in realtá, piú qualche migliaio di schiavi – di mantenere una quantitá d’acqua enorme a oltre 2500 metri d’altitudine. Fu sufficiente abbattere un po’ di qua – templi e simboli del dominio mexica tra cui Tlaloc, dio dell’acqua -, costruire un po’ di lá – i nuovi simboli del potere spagnolo – e trasformare con disprezzo il sistema idraulico della conca della Valle de Mexico. Il risultato: la rapida desertificazione di una valle che da luogo ospitale per le acque dei 45 fiumi che vi giungono e per le abbondanti precipitazioni che durano almeno sei messi all’anno é diventata una valle enorme certamente, ma estremamente vulnerabile alle piogge. Le stesse, che pur stando sostanzialmente in montagna, qui abbattono la loro furia e abbondanza come fossimo in piena selva tropicale.
Eppure la quasi totalitá delle abbondanti precipitazioni viene trasportata al di fuori della Valle per almeno due ragioni: incapacitá di trattenerla e incapacitá di purificarla. Al contrario, la capitale messicana spegne la propria sete con diversi acquedotti che trasportano acqua potabile da distanze inimmaginabili. Distanze chilometriche, ma sopratutto differenze d’altitudine. Impossibile estrarne altra dal sottosuolo (la cittá é «affondata» di 10 metri solo nel corso del ‘900), il governo cittadino importa acqua sopratutto dallo stato di Michoacan, a oltre 200 chilometri di distanza, ma sopratutto quasi 2000 metri piú in basso. Uno sforzo enorme, che non costa poco. É per questo che oggi, senza che nessuno ne sappia niene – o quasi – ormai oltre il 10% del servizio di acqua potabile in cittá (purificazione, distribuzione e riscossione tasse) é in mano ai privati. Ed un trend in aumento, almeno a quanto affermano i sindacati del pubblico impiego dedicato al settore. Intanto, nelle case dei cittadini l’acqua é per lo piú imbevibile, e se in Italia siamo i secondi consumatori di acqua imbottigliata per moda o per paranoia, qui il primo posto é stato conquistato dalla necessitá. Si paga, ma l’acqua non si beve. O non si paga e comunque l’acqua un giorno ce l’hai e due no. Cosí nella vasta periferia – che forse non mantiene assetati i suoi milioni di abitanti (i messicani sono pur sempre tra i primi consumatori al mondo anche di bibite gassate) ma certamente non permette loro di lavarsi -, l’acqua é un miracolo che si invoca e quando arriva, a causa del pessimo sistema fognario cittadino costruito sempre in ritardo rispetto alla rapida urbanizzazione irregolare, innonda, distrugge e inquina.