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Verso l’unità latinoamericana?

25 febbraio 2010 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul sito italiano Global Project il 25 febbraio 2010
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Il 22 e 23 febbraio scorsi si è realizzato il XXI Vertice del Gruppo di Río, ovvero l’organizzazione latinoamericana fondata nell’ormai lontano 1986 dagli allora firmatari Argentina, Brasile, Colombia, Messico, Panama, Perú, Uruguay e Venezuela. Convocato dal presidente messicano Felipe Calderón (che inoltre fungeva la parte di Presidente uscente dell’organismo internazionale), il vertice ha destato sin da subito certa aspettativa ed illusione, almeno nel seno della comunità degli stati latinoamericani impegnati sul fronte dell’opposizione statalista all’intervenzionismo statunitense.

E dunque, allo slogan lanciato proprio da Calderón di “Vertice dell’Unità dell’America Latina e i Caraibi” rispondevano entusiasti i soliti noti del consesso latinoamericano opposto agli Stati Uniti: Hugo Chávez ed Evo Morales intesta, seguiti (e poi preceduti) da Ignacio Lula da Silva e da un Calderón con un forte bisogno di visibilità (e riconoscimento) internazionale da far pesare poi a casa, ovvero entro i confini nazionali del Messico. Gli altri presidenti, invece, con un profilo basso, fatte salvo alcune eccezioni.

Il risultato ufficiale del Vertice è stato eccellente, secondo gli analisti più entusiasti dell’emancipazione latinoamericana nei confronti degli USA. Pur con alcuni nei rappresentati soprattutto dalla lentezza operativa di alcune decisioni, il risultato vero e concreto è uno: la decisione di creare (tra il 2011 e il 2012; di qui la lentezza) la Comunità di Stati Latinoamericani e Caraibici (CELC, l’acronimo in spagnolo). Una scelta definita storica, non tanto per la creazione dell’ennesima sigla volta a riunire i presidenti i turno di diversi paesi; ma piuttosto perché è il primo spazio formale d’incontro internazionale che comprende tutti i paesi del continente americano, eccetto i due cugini scomodi del nord: Stati Uniti e Canada. Ovvero, 33 paesi riuniti e senza l’ingerenza diretta – politica ed economica; militare è un’altra questione – dei governi statunitense e canadese. Non male, in effetti.

Il sogno di Bolivar

Se Bill Clinton aveva osato scomodare Simón Bolivar mentre provava a gestire la creazione dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), affermando che si stava finalmente compiendo il sogno bolivariano d’unità panamericana, fallendo non solo nel suo progetto di creazione d’un mercato unico continentale ma anche nell’accostamento un po’ troppo audace, questa volta ci ha pensato Hugo Chávez a riproporre l’analogia.

Eppure, nonostante il presidente venezuelano goda di maggior autorevolezza per tirare in causa il caudillo sudamericano, anche questa volta l’analogia rischia di stridere con la realtà.

Da un lato, infatti, è necessario registrare lo scontro verbale – mediaticamente molto rilevante – proprio tra Chávez e il colombiano Alvaro Uribe, presente al vertice più in veste di perturbatore che altro. Uno diverbio, nulla di più, dicono; ma agli effetti pratici, un tentativo, mal riuscito sinora, di porre i bastoni tra le ruote al processo d’unità politica continentale.

Unità politica, dunque, per nulla scontata. Perché dall’altro lato vi sono i tempi di detto processo. Qui in Messico s’è decisa la costituzione della CELC; ma la sua formulazione avverrà solamente nel luglio 2011 a Caracas, Venezuela; e nascerà definitivamente appena nel 2012 a Santiago del Cile. Ovvero, l’idea nasce ora, ma sarà costruita tra un anno a Caracas – e vedremo come andranno le elezioni venezuelane del prossimo settembre – e ratificata tra due anni in Cile, dove ormai sarà più che stabile il governo di Piñeira – in carica dal prossimo 11 marzo -, segnalato da più parti come il Berlusconi cileno.

Nuovi equilibri, vecchie posizioni

Forse è un po’ ambizioso il sottotitolo. Perché è verissimo che la retorica latinoamericana circa l’indipendenza dall’ingerenza statunitense esercitata per la via del potere statale è stata uno dei leit motiv di questo vertice; ma è anche vero che i nuovi equilibri, in realtà, forse son solo l’affermarsi di tendenze già sorte. Ciononostante, vale la pena osservare come lo scacchiere latinoamericano si riconfigura.

In un primo momento poteva sorprendere ascoltare e vedere lo stesso Felipe Calderón impegnato a promuovere l’unità latinoamericana. Ma come, ci si chiedeva, proprio colui che rappresenta coloro che han sinora disprezzato lo sguardo verso sud in favore di un rapporto (per nulla privilegiato) con gli USA. Eppure la ragione c’è. Da un alto la necessità, come detto, di trovare quella legittimità politica nell’ambito internazionale per provare a farla pesare ora in casa, dove ormai nessuno crede più all’azione di governo; dall’altro lato, la costruzione di un rapporto diretto con il Brasile di Lula, ma soprattutto con l’economia brasiliana, ormai indipendente ed autonoma anche dalla volontà dell’uscente presidente brasiliano.

Ed è proprio Lula che ha giocato, per l’ennesima volta, il ruolo di potente. Potente sì, ma buono; almeno nell’apparenza. Ecco i nuovi equilibri. L’influenza brasiliana è ormai assoluta a sud del Rio Bravo. In Sud America, certo, con l’appoggio assoluto di presidenti come Chávez che forse vede nel Brasile l’unica difesa possibile (per ora) al ritorno della destra in corso (Cile, Panama, Honduras; oltre a Colombia e Perù). Ma da oggi, comincia anche la scalata verso nord.

Egemonia brasiliana

In Messico, suo unico competitore (o ex, a questo punto) oltre USA e Canada, suo rivale nell’egemonia subcontinentale, Lula l’ha fatta da padrone: prima scongiurando le dichiarazioni più accese di Chávez e Morales, affermando che la CELC non sarebbe antiamericana, ma piuttosto è come un figlio che, raggiunta la maggiore età, si emancipa; poi però, stigmatizzando il grave caso dell’Honduras (unico paese assente al vertice); attaccando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, colpevole di favorire gli atteggiamenti prepotenti del Regno Unito, in questi giorni in conflitto diplomatico con l’Argentina; criticando l’atteggiamento paternalistico dei ‘potenti’ a Copenhagen verso il sud del mondo; infine, tranquillizzando gli industriali messicani dicendo loro: “Il Brasile non è più pericoloso degli altri soci che già avete (USA e Canada)”.

Certo a volerla leggere tutta, si potrebbe riscrivere il paragrafo precedente così, per esempio: Lula è venuto in Messico dopo anni che non lo faceva ad affermare la propria egemonia anche qui e a togliere qualsiasi illusione al Messico; ha calmato gli animi antimperialisti – e sinceramente inutili – lanciando un segnale chiaro a Obama: ora te la vedi con noi (e con me, in particolare), ma non sul piano ideologico, piuttosto sul piano materiale di un’economia in forte crescita e della consapevolezza di questo dato; parte di questo segnale, però, è stato anche ricordare agli USA (ed alla comunità internazionale) che comunque questi ultimi di errori ne han fatti e la gente, da queste parti, non lo dimentica; Lula ha colto l’occasione per ricordare al mondo che il Brasile vuole un posto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, perché senno continuerà a delegittimarlo finché questo sarà completamente inutile; ha riaffermato il proprio ruolo di portavoce di quel ‘sud global’ che s’è visto a Copenhagen e lo ha fatto proprio in Messico, a cento chilometri dalla sede del prossimo COP16 (dicembre 2010); infine, ha parlato chiaro: non siamo peggio degli USA. Forse poteva dire che sono meglio, visto che ‘meno peggio’, ancora non è sufficiente. Ed infatti, nonostante tutto, la Confindustria messicana, per ora, ha detto: ancora no, grazie (all’Accordo Commerciale promosso da Lula e Calderón).

La formalità e la realtà

Oltre alla creazione della CELC – ripetiamo: per nulla scontata; vedremo la reazione USA -, il Vertice ha prodotto anche una lunga serie di comunicati ‘speciali’ diretti a segnalare alcuni casi specifici seppure sempre nei termini delle dichiarazioni.

Innanzitutto, lo stanziamento di un fondo speciale di aiuti per Haití – presente, si dice in lacrime, il presidente Prevál. Uno stanziamento in favore delle istituzioni, giacché il governo haitiano avrebbe denunciato che oggi Haití è terra di conquista da parte di paesi esteri ed ONG di ogni tipo e genere.

E poi, l’ennesima condanna del decennale blocco economico esercitato dagli USA nei confronti di Cuba. Nonostante il basso profilo che Raul Castro ha mantenuto durante la due giorni messicana, la dichiarazione non poteva mancare.

Segue una dichiarazione di sostengo all’iniziativa dell’Ecuador di mantenere il petrolio nel suolo, in specifico l’iniziativa Yasuní. E a proposito di petrolio, il vertice ha anche sostenuto la posizione dell’Argentina nei confronti del Regno Unito impegnato proprio in queste settimane nella realizzazione di esplorazioni alla ricerca di idrocarburi presso le isole Malvinas (Falklands).

Infine, un messaggio contro il traffico di persone e l’impegno a combatterlo. Nulla in favore dei migranti, ma solo la condanna e la battaglia contro i trafficanti.

Finito il vertice, se ne tornano tutti a casa. I presidenti son felici e, nonostante alcune differenze anche importanti, han condiviso, anche questa volta, i lussi degli hotel della Riviera Maya messicana. Ed anche se Chávez ci ha provato, il sogno bolivariano è ancora lungi dall’essere realizzato. Non solo perché i conflitti nel continente sono più che aperti; non solo perché anche a sud vi sono i ‘potenti del mondo’ che fanno male a questo pianeta ed alla sua popolazione; non solo perché l’agenda che ci si è dati è forse troppo ottimista.

Il sogno di Bolivar – e tanti altri come lui – non si realizza ancora perché, come sempre, chi sta in alto ha perso l’abitudine a guardare in basso, ad ascoltare la voce e il silenzio di chi sta in basso, costruendo autonomia ed autogoverno.

Da Ciudad Juarez con amore

5 febbraio 2010 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul sito italiano Global Project il 5 febbraio 2010
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Domenica scorsa, 31 gennaio, all’alba in una strada di Ciudad Juarez, un gruppo di una ventina di persone, pesantemente armato, ha fatto irruzione in una casa privata dove si stava svolgendo una festa tra adolescenti. Un compleanno, il pretesto della riunione. Il gruppo armato, giunto sul posto a bordo di una decina di Suv neri, ha immediatamente separato uomini e donne, ovvero ragazzi e ragazzine. Le donne son state cacciate – “Via da qui!”, han gridato loro. I ragazzi e un paio di adulti son stati fatti mettere in fila contro il muro nel cortile. E di lì, una mitragliata e la fine: 16 morti e diversi feriti, quasi tutti adolescenti. La strage.
E lo scandalo. Com’è possibile, ci si domanda, che in una delle città più militarizzate del paese, alla frontiera con gli Stati Uniti, dove è appena conclusa l’operazione che ha visto migliaia di soldati schierati contro il narco; dove solo qualche settimana fa il governo ha dichiarato il cambiamento di strategia ed ha schierato nuovamente la Polizia Federale (PF); dove vi è il fiore all’occhiello dell’industria maquiladora che, crisi a parte, continua ad attirare investimenti stranieri; insomma: com’è possibile che in un posto così vi possa essere da una parte tanta disponibilità di violenza; dall’altra, tanta agibilità per i gruppi armati – tutti o quasi inevitabilmente al servizio del temuto Cartello di Juarez? Non vi sono risposte a questa domanda, eccetto quelle ovvie. Vi sono però alcuni commenti da fare, così, in ordine sparso. Perché un ordine diverso, in Messico, è comunque difficile da descrivere.

Sparsa, caotica, così è la ormai famigerata ‘guerra al narco’ di Felipe Calderon. La strage di adolescenti accaduta domenica scorsa è solo l’ennesima dimostrazione di forza, capacità di fuoco ed impunità di cui godono sicari e gruppi armati al servizio dei diversi cartelli della droga in Messico. Non è né più grave – perché son adolescenti – né più crudele. È solo una mattanza in più, dopo tante altre, ed altre ancora, che ad inizio febbraio han portato il conto totale delle vittime – quelle che sarebbero vincolate al narco – ad oltre 18mila in poco più di tre anni di governo.
Dicevamo, la strage di giovani non è più grave di altre. Gli adolescenti e i giovani, in Messico, son stati coinvolti dal narco ben prima di domenica scorsa. Non solo perché da qualche tempo, il narco effettivamente ha cominciato a prenderli di mira – a farne un obiettivo militare – in un modo tale da far credere ai più acuti osservatori che vi sarebbe in corso un sorta di ‘pulizia sociale’ in Messico; ma anche perché son i giovani oggi le vecchie e le nuove leve del narco: vuoi in qualità di spacciatori al dettaglio, o di giovani – e minorenni – trasportatori di droga, o giovani ed esaltati sicari, o fervidi consumatori, o semplicemente perché, a questo punto, un lavoro vale l’altro. E così, nonostante tutto, anche questa strage risulta nella normalità di una vita tutta violenza e zero prospettive. Altro che generazione no future da periferia urbana europea. Qui il no future deriva dalla realtà di un gioco in cui un giorno ci sei, e magari sei un leone, e il giorno dopo sei una macchia di sangue sull’asfalto e litri di lacrime attorno a te.
Perché l’altro risultato di tanta violenza a Juarez è effettivamente il fatto che oggi si crede che vi siano almeno 10mila – non cento, diecimila! – minorenni abbandonati a se stessi perché han perso i genitori in questa guerra o perché son stati abbandonati. I più fortunati, invece, han potuto emigrare con la loro famiglia: 60mila famiglie avrebbero, nel corso degli ultimi tre anni, cambiato la propria residenza oltre confine, a El Paso. Fortunati loro, si potrebbe dire.

La guerra contro il narco è fallimentare. Questa l’idea generalizzata che oggi più che mai è condivisa da tutti, compresi molti settori vicini al presidente. E dunque? Non si sa. L’impressione che lo stesso presidente sia ad un vicolo cieco diventa credibile. Dagli Stati Uniti giungono sostegni, tanto in termini dichiarativi come in termini sostanziali – il pacifista Obama, come parte del pacchetto di spesa recentemente presentato al Congresso, ha chiesto diversi milioni di dollari in più per quello che molti chiamano già Plan Merida 2. Ma la realtà di un paese in ginocchio è ormai evidente a tutti. Che vi fossero o meno accordi tra governo e cartelli, ormai poco importa. Le forze in campo sono troppo diseguali, troppo favorevoli ai cartelli. Ed allora?

Non si sa. Recentemente, molti think thank statunitensi ed alcuni messicani esprimono elogi verso il modello colombiano: militarizzazione, scontro diretto, nessuno sconto, nuovo negoziato ed intervento diretto degli Stati Uniti. Ecco, ed allora se così fosse, ci sarebbero due problemi: uno, l’intervento diretto sarebbe molto, ma molto complicato, date le condizioni sociali e la tradizione messicana – anche di governo – ostile all’intervento straniero diretto; l’altro, la necessità di un uomo forte, un nome, una personalità che riesca a resistere agli accordi congiunturali, che riesca ad imporre la propria linea (ed i propri interessi) ed ad assumerne le conseguenze. Felipe Calderon non è Alvaro Uribe.
Sia come sia, dal punto di vista nostro, entrambe le possibilità – ovvero che la situazione rimanga quel che è o che si passi definitivamente al modello colombiano – sarebbero a dir poco nefaste. In entrambi i casi, movimenti sociali, realtà autorganizzate, esperienze di autonomia dal basso sarebbero comunque stritolate non tanto dalla forza politica degli schieramenti in campo, ma dalla forza militare che si sta dispiegando nel paese.
Per ora, vie d’uscita è difficile vederne. Non tanto perché non vi siano le condizioni perché scoppi una ribellione generalizzata, definitiva, che metta per una volta all’angolo questa classe politica e ponga le basi di qualcosa di diverso; non perché non vi sia la disponibilità umana, persone, esseri umani, donne e uomini oggi disposti a sognare, costruire e quindi porre le basi di quel qualcosa di diverso. Ma forse, solo perché il fattore narco pochi lo prendono in considerazione. In seno ai movimenti, almeno nel dibattito più o meno pubblico, si parla pochissimo dei cartelli della droga. Solo si pensa – con certa logica – che stanno più di là che di qua; che son amici comunque del governo e/o del capitale; che fanno del male alla società. Nessuno, sinora, pone il problema di come gestire, confrontarsi e risolvere il problema del narco dal basso.

Gara di resistenza degli elettricisti

12 novembre 2009 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul sito italiano Global Project il 12 novembre 2009
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Gli elettricisti messicani son nuovamente scesi in piazza ieri 11 novembre riuscendo sostanzialmente a bloccare la capitale messicana e realizzando mobilitazioni in diverse altre regioni del paese. Dalle 7 di mattina, tutti gli ingressi stradali a Città del Messico sono stati bloccati per diverse ore con tanto di scontri e, si dice, qualche sparo. In città almeno 35 manifestazioni e blocchi stradali sparsi un po’ ovunque, soprattutto presso le sedi del governo federale e dell’ex-impresa, Luz y Fuerza del Centro (LyFC), liquidata improvvisamente per decreto del presidente Felipe Calderón il 10 ottobre scorso. Nel resto del paese, la solidarietà per le migliaia di lavoratori rimasti senza lavoro da un giorno all’altro s’è espressa anche in diversi punti del paese in diverse manifestazioni. Le più numerose e partecipate, quelli solidali di Oaxaca grazie alla dissidenza sindacale dei maestri della Sección 22; e del nord del paese promosso dai minatori.

È una gara a chi più resiste. Da una parte il governo che prova a logorare la resistenza sindacale prendendo per disperazione e letteralmente per fame gli oltre 44mila elettricisti licenziati il 10 ottobre. Dall’altra gli stessi lavoratori, appartenenti tutti al Sindacato Messicano degli Elettricisti (SME), che resistono grazie alla sempre maggior solidarietà sociale che stanno ricevendo.

La mobilitazione era stata convocata lo scorso 26 ottobre in occasione dell’assemblea generale di solidarietà durante la quale si era convocata la manifestazione dell’11, il cosiddetto Paro Cívico Nacional, l’alternativa ‘civile e pacifica’ allo sciopero che molti acclamavano. D’altra parte, la dirigenza sindacale – sostenuta da una minima parte della classe politica messicana e dagli altri grandi sindacati ‘democratici’ – lo aveva detto sin da subito ed ha impostato la resistenza sulla cosiddetta ‘via legale e politica’, la stessa che promuove l’ex candidato presidenziale Andrés Manuel López Obrador: quindi enorme collegio di avvocati e pressione sul Congresso federale. E tante manifestazioni ‘pacifiche’ di piazza.

Ed infatti, la mobilitazione di ieri è stata generalmente tranquilla sotto il profilo dell’ordine pubblico, fatta eccezione di alcuni incidenti da verificare e lo sgombero violento di alcuni blocchi stradali. E se in questi ultimi è stata la Polizia Federale che ha attaccato i manifestanti, nel primo caso si parla nello specifico di dieci spari esplosi contro la polizia. Il fatto – che ha comunque prodotto 10 arresti – è da confermare e potrebbe in realtà trovare origine tra persone estranee alla mobilitazione. Nelle strade la dirigenza sindacale dunque. Ma soprattutto la base lavoratrice che, seppur ‘pacifica’, ha dimostrato grande determinazione, dignità e, per certi versi, entusiasmo.

Gli elettricisti han compiuto ieri un mese in resistenza privati del reddito della scomparsa Luz y Fuerza del Centro. Per fortuna, la solidarietà continua a mantenere i lavoratori e relative famiglie: una vasta rete di organizzazioni che raccolgono cibo e soldi in diversi punti della città e del paese.

Lo sforzo è enorme. In queste settimane non solo vi è stata la repressione e il disprezzo che il governo organizza e trasmette nei confronti soprattutto dei lavoratori più attivi. Vi è anche l’appetitosa offerta del governo che ha fissato per il 14 novembre prossimo (tra 2 giorni!) il limite massimo per accettare la ‘favorevole’ liquidazione proposta dal governo. Il ministro del lavoro, Javier Lozáno Alarcón, ha infatti offerto condizioni estremamente favorevoli più un premio economico. E poi, la promessa del reinserimento lavorativo, vuoi via riassunzione nella nuova impresa che gestisce il sistema – la CFE – o grazie al finanziamento per la formazione per ‘micro e piccole imprenditori’. Peccato che i soldi della liquidazione sono per ora solo una cambiale con scadenza ‘aprile 2010’ con la firma del governo messicano; la riassunzione sarà solo per poco meno di 5mila lavoratori; e i corsi di formazione sono per i futuri ‘padroncini’ dell’elettricità messicana, ovvero una miriade non protetta di lavoratori autonomi.

Ma la tentazione è comunque forte. Sinora meno della metà dei 44mila rimasti a piedi avrebbe accettato l’offerta. Non troppi a pensarci bene. Ma comunque una cifra che non ci aspettava. Poco importa, forse alcuni se ne pentono oggi, dopo che è giunta la prima vittoria legale (certo, anche l’unica): la sentenza di sospensione del procedimento di liquidazione dell’impresa. La sentenza è importante certo, soprattutto se si dovesse ‘vincere’, ovvero tornare alla situazione precedente il 10 ottobre, perché rappresenterebbe un’enorme vantaggio economico per il SME e i lavoratori.

A questo punto però, è urgente chiedersi: sarebbe quella la vittoria? Il Paro Nacional non ha dato molte risposte in questo senso. Certo, per gli elettricisti sarebbe un bel colpo far fare un passo indietro di questa portata al governo. Ma il movimento sceso nelle strade oggi sembra voler anche dell’altro. Cosa? Pochi lo dicono e forse pochissimi lo sanno.

Il vero dato che non permette di essere ottimisti rispetto ad un ritorno al passato, ma piuttosto obbliga ad uno sguardo verso il futuro che preveda altri scenari, altri orizzonti o, almeno, altre soluzioni, è il fatto che il governo – ed in generale il paese, quindi anche i messicani – si stanno giocando una partita che va oltre il pur grave licenziamento in tronco di oltre 44mila persone e la precarizzazione per 44mila famiglie.

La partita sull’elettricità è vastissima. Comprende i giochi economici di medie e piccole dimensioni (alcuni davvero miserrimi) di funzionari di diverso grado – tra cui il presidente Calderón – che presto lasceranno il posto e lo vogliono fare con la tasche piene; altrettanto discreti giochi di personaggi politici di varie provenienze che cercano di rifarsi una verginità politica o di inventare una carriera; e grandi partite – ma a geometria variabile – di imprese multinazionali impegnate a spartirsi la torta dell’energia messicana e continentale, nel contesto dei grandi piani energetici pubblico-privati che attraversano l’America Latina.

Ed infine, la grande partita che forse vale definire una sfida, non ultima né definitiva, ma pur sempre una scommessa per una popolazione sempre più messa all’angolo dalla politica economica e di sicurezza del governo. Proprio in queste settimane, infatti, dopo un noioso e francamente penoso rimpallo di responsabilità tra senatori e deputati, i due rami del parlamento messicano hanno finalmente approvato la legge finanziaria per il 2010 proposta dal governo federale, giunto ormai a metà del suo mandato. E la voce forte degli ingressi previsti per l’erario pubblico è rappresentata da un generale aumento delle tasse. Al di là delle considerazioni di merito sull’opportunità o meno di questa misura economica nel contesto della ‘crisi’, il risultato reale, concreto e tangibile e pressoché immediato – cioè nel corso del prossimo anno – che ci si può aspettare è un ulteriore e generale impoverimento della popolazione.

È decisamente sempre più difficile comprendere non solo il grado di controllo e previsione – anche solo nel corto periodo – che chi governa esercita sulle azioni che promuove e sulle conseguenze delle stesse, ma anche quali sono i limiti del proverbiale – o semplicemente presunto – livello di tolleranza della moltitudine in movimento in Messico.

Moltitudine messicana

16 ottobre 2009 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul sito italiano Global Project il 16 ottobre 2009
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Trecentomila o forse qualcosa di più. Questi i numeri della prova di forza realizzata ieri, 15 ottobre, dagli elettricisti del centro della Repubblica messicana. La capitale del paese, la zona di maggior intervento della liquidata compagnia parastatale Luz y Fuerza del Centro, è stata letteralmente invasa da una moltitudine di manifestanti. Certo, tra loro i 42.000 lavoratori, licenziati da un giorno all’altro per decreto presidenziale la notte di sabato scorso. E con loro le rispettive famiglie, rimaste senza uno stipendio. Ma assieme a loro, decine di migliaia di altri manifestanti: moltissimi sindacati – stessi che da tempo non si vedevano per le strade messicane -, ma anche studenti, gente comune, organizzazioni sociali dedicate alla lotta per la sovranità alimentare, per i diritti umani, per i diritti di genere, ecc.. La protesta sociale in Messico è al limite dello scontro. La manifestazione di ieri era fondamentale non tanto per trovare una soluzione, ma per dare un segnale. Il decreto presidenziale che la notte tra sabato e domenica scorsi ha sciolto d’autorità la compagnia elettrica parastatale che forniva energia alla capitale messicana e a alcune decine di municipi circostanti – un totale di circa 30 milioni di utenti – e ha licenziato, in tronco e senza appello, 42.000 lavoratori appartenenti, tutte e tutti, al Sindacato Messicano di Elettricisti (SME), uno dei sindacati più importanti del Messico, doveva ricevere una risposta adeguata. Il rischio, secondo alcuni analisti, era infatti quello di mostrare ulteriore debolezza, il che avrebbe dato ragione al governo. Questi infatti sostiene – nel decretare la chiusura della compagnia – che la stessa è cara, troppo cara. E la colpa, in buona parte, ricadrebbe sui lavoratori, privilegiati nel loro contratto collettivo che concederebbe loro troppi diritti. La realtà è diversa, si sa: gli elettricisti messicani godono semplicemente dei minimi diritti garantiti dalla Legge Federale del Lavoro. Il che, in un paese in cui la metà della popolazione economicamente attiva lavora nel “settore informale” sarebbe certamente un privilegio, ma la spinta al ribasso che il governo vorrebbe imporre appare come una franca esagerazione: gli elettricisti messicani, infatti, la maggior parte di loro, ricevono uno stipendio medio di 6.000 pesos, meno di 400 euro, al mese. Una miseria, anche da questa parte del mondo. Per fortuna, dunque, il segnale c’è stato. Ed il governo in serata è stato costretto ad accogliere la richiesta giunta da più parti di stabilire un tavolo di dialogo tra le parti. Certo, un dialogo strano: il SME, infatti, richiede il ritiro del decreto e la restituzione dei posti di lavoro; dal canto suo, il governo sarebbe disposto a discutere solamente i meccanismi di reinserzione dei 42.00 nel mondo del lavoro. Nulla più. Ma la partita è cominciata e dipenderanno più dal movimento che dal governo gli esisti positivi del negoziato. Il governo messicano, infatti, ha impostato l’operazione contro Luz y Fuerza con grande attenzione. Si dice che già due settimane prima il governo fosse pronto al gole contro gli elettricisti. Da due settimane la polizia federale e l’esercito era dislocato nei pressi delle istallazioni elettriche, pronti ad occuparle appena l’ordine fosse giunto. Si dice anche che il governo tutto avrebbe previsto, compresa la mega manifestazione di ieri e che, quindi, sarebbe ora necessario aumentare la pressione sociale perché davvero gli equilibri cambino di segno. Dall’altro canto, anche la intensa campagna mediatica contro gli elettricisti è evidentemente orchestrata dall’alto: l’idea sembra essere quella classica, ovvero contrapporre la cosiddetta “classe media” – in rapida via d’estinzione, causa crisi economica – agli operai messicani. Allo stesso tempo, il governo comincia il dialogo partendo da due dati di fatto: il primo, l’occupazione militare delle istallazioni elettriche continua, con l’uso di oltre 5.000 tra poliziotti e militari; il secondo, il processo di privatizzazione è già cominciato, grazie alle concessioni trasmesse all’impresa d’origine spagnola WL Comunicaciones S.A. De C.V.. Dal canto suo, anche il movimento gode di alcuni vantaggi ed alza la posta in gioco. Innanzitutto, la grande solidarietà dimostrata non solo ieri durante la manifestazione, ma nel corso di tutta la settimana. Decine di migliaia di persone si stanno mobilitando in tutto il paese. Manifestazioni di appoggio, ma anche di protesta, perché l’operazione del governo ha prodotto anche problemi alla distribuzione dell’energia elettrica. E a questo proposito, il SME denuncia che la polizia starebbe prelevando con la forza ad alcuni dei lavoratori licenziati – soprattutto tecnici specializzati ed ingegneri – perché il personale che l’ha sostituito per decreto non sarebbe capace di far operare gli strumenti di Luz y Fuerza. Ma, per fortuna, il discorso del movimento va anche oltre alla legittima richiesta sindacale: importanti voci all’interno dello spettro politico messicano stanno chiedendo ad alta voce la rinuncia del presidente Felipe Calderon. E c’è anche chi suggerisce lo sciopero generale nazionale, il che sarebbe un precedente importante, visto che l’ultimo sciopero generale in Messico data 1936, quando il mondo, evidentemente, era un altro. In chiave postfordista invece è giunta la proposta dello sciopero generale dei consumatori: non pagare le bollette, potrebbe essere un ulteriore strumento di protesta sociale. E, nonostante tutto, vi è anche una soluzione radicale: gestione dell’impresa parastatale in mano ai lavoratori con l’aiuto delle tre grandi università del paese, la Nazionale Autonoma (UNAM), la Autonoma Metropolitana (UAM) e il Politecnico (IPN). Dal palco, alla fine della manifestazione, la dirigenza sindacale, peccando di autoreferenzialità, annunciava il ritorno dei lavoratori-operai al centro del dibattito politico messicano. Non è vero, anche il Messico è cambiato ed il lavoro salariato, quello classico e d’origine fordista, difficilmente potrà riavere il ruolo che ebbe in passato. Ma certamente la manifestazione di ieri ha restituito dignità ai lavoratori messicani. E a conferma di ciò, era sufficiente osservare la composizione della manifestazione: sindacalisti, certo, ma anche contadini, studenti, casalinghe. Ed assieme a loro, attiviste femministe, per la lotta per la casa, contro gli OGM e in difesa del mais, per i diritti umani, contro le alte tariffe elettriche, in difesa dell’ambiente e del territorio. Insomma, una vera e propria moltitudine. A questo punto, resta solo da vedere se la dirigenza sindacale del SME, chiamata da oggi a dialogare con il governo, saprà mettere a valore la potente sinergia che ieri ha fatto capolino per le strade di Città del Messico. Da vedere se si saprà far convergere tante esigenze sociali, diverse e variegate, in un unico movimento moltitudinario che anticipi ciò che molti già annunciano per il prossimo anno, il 2010: la mobilitazione sociale generalizzata.

‘Guerra al narcotraffico’

1 settembre 2009 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul sito italiano Global Project l’1 settembre 2009
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La chiamano ‘guerra contro il narcotraffico’. È stata lanciata così, in pompa magna, davanti alle centinaia di telecamere dei mezzi di comunicazione che riprendevano il neo presidente messicano, Felipe Calderon, in uno dei suoi primi discorsi pubblici, verso la fine di dicembre 2006. E da allora, colui che si era presentato alle elezioni – vinte grazie ad alcune irregolarità – come il “presidente del lavoro” (inteso come posti di lavoro), divenne il presidente della ‘guerra al narco’, della battaglia ‘epocale’ contro i potentissimi cartelli messicani della droga. Sin da quei primi mesi, lo slogan ottenne il successo desiderato: nonostante la scarsa legittimità di cui godeva Calderon, la nuova impresa dello Stato contro la criminalità organizzata che “insanguina le nostre terre e offre droga ai nostri figli” sembrava ottenere quel consenso non pienamente ottenuto alle urne. Ed allora il via ufficiale alla crociata anti-criminalità: 70.000 soldati utilizzati in funzione di polizia, nuove leggi che permettono maggiore agilità ‘giuridica’ e libertà operativa per le forze di polizia e per gli inquirenti, firma dell’Iniziativa Merida, piano strategico che prevede il finanziamento per circa 1.4000 milioni di dollari in tre anni da parte del governo americano per la ‘lotta al narcotraffico’, ecc..
Ad oggi, 32 mesi dopo il lancio delle operazioni, il bilancio è tragico: oltre 13.000 morti, con un aumento del 100% tra il 2008 e il 2009, visto che si è passati da una media di 10,2 morti al giorno dello scorso anno a ben 20,1 di quest’anno. E, purtroppo, non vi sono segnali di una controtendenza a questa vertiginosa crescita. Certo, si dice, i morti sono tutti narcotrafficanti, grandi e piccoli, che si uccidono tra loro, nella battaglia campale che si è scatenata da quando il governo messicano, lanciando la sua ‘guerra’, ha tagliato la testa a praticamente tutti i grandi cartelli della droga. Una guerra interna, si dice, che “dimostra l’efficacia dell’attuale politica dello Stato”, dicono presso il plenipotenziario Ministero della Pubblica Sicurezza (SSP, l’acronimo in spagnolo). Quel che è vero, però, è che gli scontri tra le bande di narcotrafficanti non avvengono nelle ore notturne, i luoghi isolati e lontani dagli occhi della popolazione. Al contrario, le sparatorie ormai si realizzano nei centri cittadini delle grandi città, da Guadalajara a Monterrey (rispettivamente la seconda e la terza città più grande del paese), da Ciudad Juarez a Tijuana, da Acapulco e Città del Messico. Ed allora le cifre potrebbero aumentare, perché molte volte le cronache giornalistiche riportano l’esistenza di vittime ‘civili’, tra i passanti, tra i comuni cittadini costretti ad assistere impotenti a questo scontro senza precedenti. Ma purtroppo, di queste vittime, ancora non c’è una statistica ufficiale che, pur riducendo le vite in semplici numeri, riesca comunque ad offrire un panorama anche di questo genere d’impatto sulla società. Dall’altra parte, poche sono anche le informazioni relative alle morti, pure copiose, tra le forze dell’ordine, attaccate ormai con quotidiana regolarità dalla potente macchina militare del narcotraffico. Il governo lo ha ammesso ormai da diversi mesi: “I cartelli sono militarmente superiori a noi, in quanto a volume di fuoco e capacità distruttiva”. Detto in altre parole: i narcotrafficanti hanno più uomini – si calcola che in tutto il giro d’affari ci lavorino circa 2 milioni e mezzo di persone – ed armi più potenti – da bazooka a missili terra-aria. Insomma, la guerra è vera e non risparmia colpi.

Ma se la campagna presidenziale – perché ormai, tra critiche ed opinioni contrarie, sembra che solo Calderon ed il suo staff continuino a credere nell’attuale strategia – sembra destinata ad aumentare ulteriormente il numero di morti nel paese, sorge da più parti la domanda rispetto il reale obiettivo di tanta “violenza legittima”. Perché è pur vero che molti – ma non tutti: esemplare il caso di Joaquín ‘el Chapo’ Guzman – dei grandi capos della droga son finiti dietro alle sbarre, ma è questo forse l’unico risultato concreto ottenuto: sull’altro versante, infatti, ormai non si contano i municipi commissariati, le cui polizie locali sono state sostituite dall’esercito; non si conta il numero di armi presenti nel paese; non si contano i giovani – e meno giovani – che oggi, disoccupati e in crisi perenne da ben prima della temibile ‘crisi economica’, entrano a far parte dell’affare-narcotraffico. Così come, infine, è difficile oggi distinguere con chiarezza le reali operazioni anti-criminalità da quelle contro le organizzazioni sociali, più o meno civili.
La presenza dell’esercito nello stato di Guerrero, per esempio, incluso nelle vie della rinomata Acapulco, ha già prodotto scontri a fuoco, di una certa rilevanza, tra le forze armate e gruppi armati appartenenti alle diverse sigle guerrigliere presenti nel territorio. In altre zone del paese, Oaxaca e Chiapas per esempio, ma anche nel nord della repubblica, sono ormai all’ordine del giorno le denunce di organizzazioni sociali – assolutamente non guerrigliere, ma semplicemente radio comunitarie, contadini, comunità indigene, studenti, ecc. – rispetto ai presunti abusi ed alle violazioni ai diritti umani realizzate dalle truppe dell’esercito nelle vesti della pubblica sicurezza. In questo senso, non solo sono allarmanti le denunce, ma ancor più inquietante risulta essere la risoluzione della Suprema Corte di Giustizia della Nazione (SCJN) emessa a principio di agosto rispetto all’immunità di cui godono le truppe. Dice la risoluzione: i militari colpevoli di violazioni al codice penale saranno giudicati dagli organi di giustizia militari. Un colpo tremendo, soprattutto per tutti coloro – tra cui diversi settori della classe politica rappresentata in Parlamento – che pongono il dubbio sulla reale legittimità nell’uso delle forze armate in funzioni di polizia.

Il dibattito rispetto l’immunità dei militari non è sterile. Al contrario, si genera a partire da fatti concreti: omicidi ‘involontari’, magari a qualche posto di blocco dove un’automobile innocente non si è fermata all’alt pronunciato dall’esercito; arresti arbitrari, incursioni senza mandato in case e spazi privati; torture ed abusi fisici agli interrogati; alcune sparizioni sospette. Ma la polemica, come suole accadere, si accende solamente quando l’ombra del dubbio è segnalata dalle voci ‘importanti’. La consegna dei finanziamenti previsti dall’Iniziativa Merida, infatti, è condizionata dal rispetto dei diritti umani nella lotta al narcotraffico. La legge emessa in aprile di quest’anno dal Congresso statunitense, infatti, vincolava il 15% del finanziamento ad uno studio in fase di realizzazione che certifichi tale rispetto. Il presidente Calderon nega gli abusi. Il Ministero della Difesa ne ammette una decina e conferma che la giustizia militare sta facendo il suo corso. Ma le organizzazioni sociali hanno altri dati: Amnesty International, Human Rights Watch ed altre documentano decine e decine di casi, in tutto il paese.
Rosario Ibarra, oggi senatrice della Repubblica, ma da oltre trent’anni attenta e testarda lottatrice per la consegna delle centinaia di desaparecidos della cosiddetta ‘guerra sporca’ degli anni ’70, tra cui il figlio Jesus Ibarra, avverte che la presenza di tanti soldati nelle strade messicane potrebbe avere anche altre finalità: “Giustificano tutto con la lotta al narcotraffico, ma la gente continua a morire e pochi sono gli arresti”. Aggiunge: “Cercano di abituare la popolazione alla presenza militare per le strade. Fanno in modo che la gente esiga questa presenza, con l’illusione di risolvere il problema dell’insicurezza”. E conclude: “In realtà temo che il prossimo passo ci saranno gli escuadrones de la muerte”(l’ipotesi, purtroppo, si starebbe confermando). Carlos Montemayor, scrittore ed analista politico, coincide nell’analisi: “È evidente che la situazione è scappata al controllo del governo”. In quest’ottica e nel contesto dell’attuale crisi economica – che ha portato all’aumento ‘ufficiale’ nel numero di poveri in Messico: 53,1 milioni, secondo l’INEGI, l’istituto nazionale di statistiche -, spiega, “si stanno chiudendo le valvole di sfogo naturali alla pressione sociale crescente, ovvero emigrazione (il Messico espelleva, sino all’altr’anno, quasi un milione di persone verso gli USA) e il lavoro informale (o lavoro ‘nero’, di cui farebbe parte il 48% della Popolazione Economicamente Attiva)”. Quel che resta, conclude “è che la gente senza lavoro andrà ad ingrossare le fila del narcotraffico”. È evidente dunque che, come spiega Johan Galtung, “le ragioni per le quali la gente accetta di lavorare per i cartelli è che desidera uscire dalla miseria” e quindi “ si devono offrire valide alternative economiche alla popolazione”. Ma il governo messicano non ci sente per quell’orecchio e continua ad inviare soldati nelle ‘zone calde’ del conflitto. Continua Galtung: “Per il governo il problema non è la miseria, ma il narcotraffico, perché questo offre un’alternativa alla miseria di milioni” e di conseguenza ottiene tendenzialmente maggiore consenso. L’attuale militarizzazione del paese, dunque, potrebbe essere letta in un’ottica che comprenda il lungo termine. L’opinione di Galtung, largamente condivisa da Montemayor, è che “il governo teme il 2010, per l’effetto simbolico che produrrà”. Il prossimo anno, infatti, si celebreranno due importanti anniversari: i duecento anni dell’Indipendenza (1810) e i primi cent’anni della Rivoluzione (1910). Secondo i più queste due date “obbligheranno i messicani a chiedersi se gli obiettivi di quei due momenti storici sono stati raggiunti”. In altre parole, nel 2010 i messicani dovranno dire se il Messico è oggi veramente indipendente e veramente democratico. Secondo Galtung il governo messicano teme realmente una rivolta generalizzata nel paese. Le condizioni vi sarebbero tutte e dunque “la presenza dei militari nel territorio, nella società, risponde anche ad altre necessità: abituare la gente alla presenza militare; lanciare un segnale chiaro a chiunque abbia in mente di ribellarsi, ‘siamo pronti’; e infine abituare gli stessi militari a stare per le strade, in mezzo alla gente”. Se tutto ciò fosse vero, dunque, rimane una sola domanda a cui rispondere: “La guerra che il governo messicano realizza contro chi è? Contro le bande di narcotrafficanti o contro la popolazione?”.

Assoluzione di Stato per una Strage di Stato

15 agosto 2009 Lascia un commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul sito italiano Global Project il 15 agosto 2009
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Alle tre di notte del 13 agosto, hanno lasciato il carcere di Amate 20 degli oltre 80 condannati in via definitiva per la strage del 22 dicembre 1997 nella comunità di Acteal, nella regione Los Altos dello stato messicano del Chiapas, in cui persero la vita 45 tra uomini, donne e bambini. Rilasciati su ordine diretto della Corte Suprema di Giustizia (SCJN) messicana, i 20 indigeni sono immediatamente tornati nelle loro comunità d’origine, sulle montagne che circondano Acteal e Chenalò, capoluogo municipale della zona. Nei prossimi giorni, lo stesso supremo organo di giustizia messicana deciderà la sorte di altri 6 indigeni implicati negli stessi fatti.
La scarcerazione di parte dei colpevoli della strage del 22 dicembre 1997 che segnava l’inizio del periodo più cruento dell’attività paramilitare in Chiapas, organizzata e promossa dal Governo federale messicano dell’allora presidente Ernesto Zedillo contro la ribellione dell’EZLN, piove come una doccia fredda sui familiari delle vittime di quel giorno tremendo. Ed anche se la decisione della SCJN non smette di sorprendere chi in questi anni ha cercato giustizia per una delle stragi più efferate degli ultimi vent’anni di storia messicana, è chiaro ai più che questa è solo la logica conseguenza di un lungo processo di revisionismo storico, prima che giuridico, che l’attuale governo, assieme a diverse organizzazioni “accademiche” e della “società civile”, ha promosso.
Il 22 dicembre 1997, nel tardo pomeriggio, un gruppo importante di paramilitari irrompeva nella comunità di Acteal, i cui abitanti aderivano all’organizzazione Las Abejas, simpatizzante ma non appartenente all’EZLN. In un contesto che vedeva l’allora governo messicano impegnato nel contrasto della ribellione indigena attraverso la creazione di numerosi gruppi paramilitari nella regione (secondo i dettami dei manuali statunitensi di “contro guerriglia”), la strage di Acteal segnava il culmine di un lungo periodo di pressione violenta ed armata esercitata contro le comunità base d’appoggio (quindi civili) dell’organizzazione zapatista. Ma segnava anche l’inizio di un ciclo di attacchi paramilitari diretti e mattanze contro quelle stesse comunità che sarebbe continuato per diversi mesi. Si chiamava “guerra di bassa intensità”, ma mieteva vittime innocenti comunque, come una guerra vera e propria. Ed anche se sin dall’inizio la complicità delle autorità era evidente (la polizia statale presente sul luogo e testimone oculare dell’evento protette e “scortò” gli attaccanti; funzionari del governo locale modificarono la scena del delitto prima che vi giungessero gli uomini della Procura; l’Esercito messicano fornì di fucili d’assalto gli attaccanti pochi giorni prima della strage; ecc.), tanto che il governatore dello stato, Julio Cesar Ruiz Ferro, e l’allora ministro degli interni federale, Emilio Chuayffet Chemor, dovettero dimettersi, nel corso degli anni la Procura Generale della Repubblica (PGR) riuscì solamente ad individuare una ottantina di esecutori materiali della strage. Gli autori intellettuali e i mandanti scomparvero dalla scena. Chi riappare con prepotenza invece sono i colpevoli d’aver sparato, d’aver aperto ventri e crani con i machete, d’aver inseguito chi scappava su per le scarpate pur di salvarsi. 20 degli oltre 80 paramilitari, ampiamente riconosciuti da decine di testimonianze dei sopravvissuti di quel giorno, sono liberi, perché secondo la tesi della SCJN, sono stati condannati in seguito a un processo penale imbottito di vizi di forma e di prove “fabbricate” dagli investigatori della PGR. Insomma: le testimonianze sono valide, ma le prove a confermarle sono fasulle o fabbricate o comunque non valide secondo il codice di procedura penale messicano. Quindi, il processo si dovrebbe rifare, ma senza le prove raccolte in un primo momento.
Una scelta garantista, si potrebbe sostenere, se non fosse per il contesto che circonda questa storica decisione della SCJN. Un contesto che getta ombre lunghissime sull’operato dei giudici e soprattutto dell’attuale amministrazione federale messicana. Il processo di revisione del “caso Acteal” è il risultato di accordi trasversali tra personaggi legati all’allora cupola del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI, di Ernesto Zedillo), il Centro di Ricerca e Docenza Economica (CIDE, organo dipendente dal Ministero della Pubblica Istruzione) e il Partito Azione Nazionale (PAN, di Calderon). Accordi tali che lo stesso Calderon durante la campagna elettorale del 2006 aveva promesso che il suo governo avrebbe lavorato perché l’intero processo agli 80 condannati per la strage di Acteal fosse rivisto. Con un sostegno di questo tipo, è stato gioco facile per gli avvocati del CIDE preparare per oltre due anni i fascicoli di 46 dei condannati, promuovere un’aggressiva campagna mediatica sui maggiori organi d’informazione del paese e chiedere infine alla SCJN un giudizio definitivo sul caso.
Dicono i giudici della Corte Suprema: “La sentenza emessa oggi non giudica la colpevolezza o meno degli imputati”, ma solo la legalità del procedimento di condanna. Gli avvocati del CIDE, intanto, festeggiano “perché siamo riusciti a creare un precedente che impedirà in futuro alla PGR creare casi, creare prove e mettere in carcere innocenti”. Ed allora si domanda ai “garantisti” del prestigioso centro di ricerca: “Perché questo caso e non qualche altro caso delle decine di vittime innocenti della giustizia messicana?”. Il caso è paradigmatico, sostengono. Ma non spiegano cosa abbia di paradigmatico questo caso, i cui autori materiali, tutti, sono stati riconosciuti dai sopravviventi. Forse la risposta è un’altra: Acteal, la sua strage e le sue vittime, sono oggi l’ennesimo caso paradigmatico che dimostra la capacità dello stato messicano di produrre stragi ed autoassolversi, anche davanti all’evidenza, anche davanti all’indignazione nazionale ed internazionale.

Dieci pensieri dalla città difettosa

2 Maggio 2009 1 commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul sito italiano Global Project il 3 maggio 2009
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I.

Son passati ormai diversi giorni dall’annuncio dell’emergenza sanitaria in Messico. Giornate strane, straordinarie, che stanno già lasciando alcune conseguenze. La percezione collettiva del male, del pericolo, in questi giorni ha dimostrato, per l’ennesima volta, la potenza biopolitica che può avere il messaggio del potere. Che sia stato fatto apposta o meno, il dato è che è stato sufficiente lanciare un allarme alle undici di sera di un giovedì, in catena nazionale, e poi costruire una campagna mediatica di estese proporzioni per far tremare le ginocchia ad un paese intero. E, soprattutto, per far dimenticare, anche se per pochi giorni, tutto il resto. Una realtà quotidiana travolta e stravolta da un messaggio univoco che suggeriva chiaramente: “State attenti, potete morire tutti”.
La strana normalità di un paese che in un anno – 2008 – ha contato oltre 6.000 morti per la “guerra al narco”, che in due mesi ha perso mezzo milione di posti di lavoro formali, che vanta 60 milioni di poveri, che espelle un milione di migranti all’anno, che detiene nelle sue carceri decine e decine di prigionieri politici, che mantiene al margine della società milioni e milioni di indigeni messicani (ed anzi, fa loro la guerra), il cui governo, proprio nel climax dell’epidemia domestica, è stato messo sotto processo per il feminicidio dalla Corte Interamericana per i Diritti Umani; questa normalità è stata travolta e sostituita dall’eccezionalità dell’esistenza di un nuovo virus influenzale; dalla chiusura delle attività scolastiche a tutti i livelli; dalle numerose, o percepite tali, morti e contagi; dall’esigenza di auto imporsi nuove norme relazionali e comportamentali; dalla sospensione delle attività lavorative in questi opportuni giorni di festa nazionale; dall’eccesso informativo che ha bombardato tutti e a ogni ora, su ogni canale televisivo e radiofonico, senza riuscire mai a offrire notizie certe; dai toni allarmistici di funzionari di governo che, nonostante tutto il male che accade nel paese da molto tempo, ci avevano abituato ai loro sempre ottimistici toni da conferenza stampa; dalla proibizione a frequentare luoghi affollati e dall’irruzione improvvisa dell’emergenza nella socialità spiccata dei messicani.
L’effetto: tutti agli ordini del governo, almeno per qualche giorno.

II.

Eppure la normalità e l’eccezionalità teletrasmesse sono concetti troppo fragili, eterei e parziali per essere il parametro di queste giornate messicane. Ed allora non ci resta che volgere lo sguardo e cercare quel che non è giusto e non lo è mai stato. Le cose che accadono e che creano conseguenze. La presenza dell’esercito nelle strade messicane, per esempio. Quella che era diventata la normalità, ovvero 60.000 soldati in tutto il paese eccetto a Città del Messico, oggi è una realtà anche per la capitale. Quanti sono, pochi lo sanno. Sono qui per aiutare la popolazione durante l’emergenza. Per quanto tempo? E perché, come testimoniano decine e decine di fotografie, sono armati con fucili d’assalto? Quel che il governo locale aveva evitato per 28 mesi e mezzo, un microscopico virus lo ha ottenuto in meno di 48 ore. Un virus al servizio del governo?
Assieme all’esercito, è giunta anche la normatività – nelle vesti di un decreto con data 25 aprile che si può leggere nella Gazzetta Ufficiale – che autorizza il governo – il Ministero della Salute specificamente – a entrare nelle case messicane, a somministrare medicine, a isolare malati/appestati, a scogliere le riunioni pubbliche, ad acquistare medicine e quanto necessario per la contingenza. Il tutto sino a fine emergenza. Ma quando finirà l’emergenza sanitaria? Finirà? O si trasformerà in emergenza sociale?

III.

Nonostante le decine e decine di teorie, alcune verosimili, altre francamente cospiro-paranoiche, difficili da provare ma facili da credere, non ci rimane altro che attenerci al buon senso. Se così facciamo, non è difficile ammettere che qualcuno da tutta questa storia ci sta guadagnando e ci guadagnerà molti soldi. A cominciare dall’industria farmaceutica multinazionale. Che forse non è la colpevole cosciente di una guerra batteriologica studiata a tavolino, ma sicuramente è colpevole di non aver reso accessibile nel passato e in queste ore i medicinali e le cure necessarie per affrontare questa crisi sanitaria. È necessario pagare, dicono. Ed in effetti, il decreto menzionato sopra, darà facoltà al governo di spendere i 205 milioni di dollari che la Banca Mondiale ha prestato al Messico, così come i 600 milioni stanziati dal governo stesso o gli ormai innumerevoli crediti ricevuti, senza che nessuno approvi o meno le spese e senza che potenzialmente nessuno ne sappia niente. E come non notare la strana coincidenza del contratto firmato solo il 9 marzo scorso dall’impresa francese Sanofi-Aventis (con un investimento di 100 milioni di euro) per la produzione di vaccini? Il progetto messico-francese prevede la produzione di vaccini a partire dal 2010, ma il tempismo dell’accordo commerciale è sorprendente, se non inquietante.

IV.

E se le case farmaceutiche e i laboratori di ricerca fanno affari e rischiano di farne di più, è cominciata ufficialmente la gara per premiare – economicamente – chi troverà la formula magica che compreremo prossimamente sotto forma di vaccino. La notizia, che anche il governo di Città del Messico stia partecipando nelle ricerche (grazie all’aiuto degli efficienti laboratori dell’Istituto Politecnico Nazionale e della Università Nazionale) per “evitare che il vaccino assuma i costi di mercato imposti dalle grandi case farmaceutiche”, è appena una piccola consolazione. Perché un’altra cosa che questa crisi sta drammaticamente evidenziando è la precarietà del sistema sanitario pubblico messicano. 27 anni di neoliberismo – sostenuto anche dall’attuale amministrazione della capitale – hanno prodotto questo: un sistema sanitario incapace di rispondere efficacemente ad un’epidemia e che proprio per questa inefficienza è tra le cause di tanti contagi; un sistema pubblico di ricerca scientifica abbandonato dalla spesa pubblica e che ha dovuto subire l’onta dell’arrivo dall’estero (dagli USA) degli strumenti capaci d’intercettare il nuovo virus; la presenza di decine di medici fuoriusciti dalle centinaia di università private, che proprio nei giorni più acuti della crisi, non solo hanno dimostrato incapacità, ma hanno, in molti casi, abbandonato letteralmente il posto per “paura di contagio”. Il tutto a scapito degli ottimi medici che il sistema educativo pubblico sforna ogni anno.

V.

Chi altro ci guadagna in tutta questa storia? Difficile capirlo ancora, ma gli indizi sono molti. Le denunce che una certa parte del panorama istituzionale pronuncia contro “chi vuole capitalizzare elettoralmente l’attuale congiuntura”, seppur strumentali loro stesse, hanno un fondo di verità. Ed anche se la politica elettorale e la rappresentanza politica formale non ci appartiene (e non ci interessa), non possiamo negare che proprio questo sistema, conquistato dopo decenni di lotte politiche clandestine e represse dal partito-stato, rappresenta oggi uno dei metri per misurare la fragile democrazia messicana. E quindi non sono solo i soldati in strada, le leggi emergenziali che impongono lo stato d’eccezione, ma anche l’intervento sempre più pressante che proprio in questa fase, il governo sta esercitando sugli altri poteri dello Stato. Prima, il silenzio assoluto da parte della magistratura (e del potere giudiziario nella sua totalità) rispetto alle leggi eccezionali che stanno passando, un giorno sì e l’altro pure. Poi, l’intervento esplicito dell’esecutivo nell’attuale processo elettorale che dovrebbe culminare il prossimo 5 luglio con l’elezione di metà del Congresso federale. L’uso del condizionale è d’obbligo, visto che si sta già discutendo la sospensione della data elettorale. E mentre questo si decide, il Ministero della Sanità – con il Presidente alle spalle – interviene nella campagna elettorale, infrangendo, ancora una volta, le regole stabilite. Non è dunque l’autorità competente, l’Istituto Federale Elettorale, ma il Ministero che detta le regole “sanitarie” della campagna elettorale che comincia i 4 maggio: i comizi non dovranno essere troppo partecipati; non si realizzeranno in luoghi chiusi; si potranno organizzare solo tra le ore 10 e le ore 15; circa il 10% degli spazi elettorali in televisione e radio saranno ceduti al governo perché trasmetta le indicazioni sanitarie alla popolazione.

VI.

Al di là delle reazioni sociali che straripano spesso e volentieri nella paranoia e psicosi generalizzata o in episodi diffusi e in crescita di discriminazione nei confronti degli abitanti di Città del Messico (qui nel paese) e dei messicani in generale (all’estero), nelle ultime ore, per fortuna, si sono registrate anche alcune proteste, isolate se si vuole, ma che sono lì a dimostrare che la dignità della cittadinanza non si fa ingannare dalle minacce di morte per contagio rilasciate dal governo. Sono episodi dei giorni scorsi che hanno visto i medici di due grandi ospedali della capitale protestare per la mancanza di misure di sicurezza adeguate. Ma è soprattutto la protesta apparentemente spontanea di duemila persone (quasi tutte donne) che si son scontrate con la polizia antisommossa della capitale fuori da uno dei più grandi carceri maschili di Città del Messico. Hanno protestato, perché da una settimana non gli permettono di vedere i propri cari. Visite proibite. Ma anche i detenuti, da dentro, hanno protestato per la mancanza di condizioni igieniche: 8.500 detenuti in un carcere per 3.000 persone, mancanza di cibo decente, assenza di saponi e medicine, ecc. Le donne fuori han lanciato pietre per due ore alla polizia. Han bruciato una pattuglia. Alla fine, il governo ha ceduto: visite ristabilite, seppur limitate. Ma è da risaltare anche la disobbedienza praticata da migliaia di lavoratori che, nonostante i divieti, il primo maggio han manifestato in tutto il paese e a Città del Messico.

VII.

Qualche giorno fa, c’è stata un’altra protesta, ma fuori Città del Messico. Precisamente a Las Glorias, nello stato di Veracruz, a dieci chilometri dall’istallazione dell’impresa Granjas Carroll, proprietà al 50% dell’americana Smithfield Food Inc.. L’impresa, produttrice di quasi un milione di maiali all’anno, è al centro della polemica in questi giorni, proprio perché si sospetta che lì, in quel territorio altamente inquinato proprio dalla produzione suina, si sia generata la mutazione virale che oggi rischia di contagiare il mondo intero. I manifestanti hanno chiesto di indagare l’impresa e le autorità che l’hanno protetta sinora ed eventualmente chiuderla. Un buon segno, ma ancora insufficiente. Evidentemente, come sostiene nel suo ottimo articolo l’americano Mike Davis, è oggi urgente – come lo è stato all’epoca della febbre aviaria – rivedere l’intero sistema di produzione alimentaria (ed anche di consumo alimentario) dell’epoca neoliberista che da tempo ha superato ogni limite.

VIII.

A proposito di proteste, dovremmo aspettarci nei prossimi giorni anche le proteste del settore produttivo. E non degli industriali e dei commercianti, che stanno già ricevendo le garanzie (economiche) del caso, ma dei lavoratori, vittime predestinate a pagare il prezzo della chiusura imposta dal governo di alcune attività produttive. Lo hanno già detto i padroni: gli stipendi si pagheranno, ma le ore perse dovranno essere recuperate con altrettante ore di straordinario, non pagate ovviamente. Orari da 24 ore al giorno di lavoro? Forse, o senno il licenziamento. E già, perché questa crisi sta offrendo agli industriali la possibilità di eliminare quei posti di lavoro che già prima erano di troppo, ma che si tolleravano in nome della pace sociale e delle statistiche economiche, tanto care alla classe politica messicana. I sindacati messicani non stanno a guardare e già avvertono che non permetteranno queste pratiche. Ma sarà sufficiente il sindacalismo onesto e democratico messicano a frenare queste intenzioni neanche tanto oscure degli industriali? Lo vedremo presto. Per ora vale ricordare che solo il 18% dei lavoratori in Messico è sindacalizzato e, di questi, solo il 10% appartiene a un sindacato vero, ovvero non controllato dai padroni.

IX.

Dopo quanto detto, forse risulta più facile rispondere alla domanda che tutti continuano ancora a fare: perché il virus uccide solo in Messico? La risposta precisa nessuno l’ha data, anche se in una conferenza stampa, un distratto ministro della salute, se l’è fatta scappare: “Abbiamo reagito con ritardo”. È vero. Il primo caso di contagio da virus suino che si è concluso con una morte, la prima, risale al mese di marzo. E già i primi di aprile, il governo intuiva quel che sarebbe potuto accadere. Ma sperava forse di riuscire a contenere la possibile epidemia. Non ce l’ha fatta.
Oggi, altre risposte alla domanda da un milione di dollari sono facili da dare: il sistema sanitario pubblico assolutamente deficiente; l’esistenza di almeno 60 milioni di poveri nel paese che non hanno praticamente alcun accesso ai servizi medici; la mancanza nel paese di medicine adeguate; l’assenza di informazioni precise non solo sul numero reale di deceduti e contagiati (chi? dove? quando? età? origini? ecc.), ma soprattutto sui reali rischi di questo virus.

X.

Infine, un pensiero dedicato a questi venti milioni di esseri umani che vivono in questa valle. È difficile in queste ore non cedere alla tentazione di posizioni diffidenti nei confronti del prossimo. Il sospetto minaccia costantemente le relazioni personali. Ma vi è anche il consolidarsi di relazioni tra conoscenti che s’informano della salute altrui con grande generosità. Si stabiliscono ponti e nuove amicizie. Il tutto sulla base d’un empatia comune attorno alla sopravvivenza, anche solo psicologica, in queste ore di enormi pressioni informative. Inoltre, va aggiunto che nonostante tutto, la reazione della cittadinanza è stata di grande dignità. La mascherina azzurra o verde, seppur quasi inutile ad evitare il contagio, è diventata oggi il simbolo di una resistenza che, se in un primo momento era assolutamente individualista, oggi assume un segno collettivo di notevole importanza. Il messaggio, che molti mezzi di comunicazione trasmettono – anche in Italia, ahimè – nel senso del cittadino messicano travolto dal virus vuoi per ignoranza, per povero, per poco igienico, per egoista o per credenze mistiche estranee alla civiltà, non solo denuncia la solita visione egocentrica e decisamente razzista di certa stampa e di certi commentatori, ma aiuta ancor di più il discorso governativo (anche messicano) che vorrebbe una cittadinanza incapace di aiutare se stessa e bisognosa dell’aiuto del fratello maggiore, lo Stato.

Città del Messico, cittadinanza in quarantena

26 aprile 2009 1 commento

Il presente articolo é stato pubblicato sul sito italiano Global Project il 27 aprile 2009
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Audio dell’intervista realizzata con Global Project.
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Sembra fatto apposta. Quando l’anno scorso si cominciò a parlare di crisi finanziaria e si cominciavano a intravedere i segni dell’attuale crisi economica, il governo messicano, attraverso il suo ministro delle finanze, parlava “di un leggero catarro” per l’economia nazionale. Qualche mese dopo, smentito dai fatti – mezzo milione di disoccupato negli ultimi due mesi del 2008 -, il governo dovette correggersi: “questa è una polmonite”. La metafora, già di per sé un po’ sfortunata, sembra in questi giorni aver riscosso il prezzo dell’abuso verbale.
Dal mese d’ottobre scorso, il sistema sanitario affronta il problema del virus influenzale. Un virus poco conosciuto in questo paese, per ovvie ragioni latitudinali. Ma da ottobre, ovvero da oltre sei mesi, il sistema sanitario non riesce a contenere il problema. E mentre nella società si promuoveva la dubbia pratica delle vaccinazioni antinfluenzali, negli ospedali gli stessi operatori sanitari si ammalavano. Ed alcuni morivano. È il caso di due studenti all’ultimo anno di praticantato presso l’ospedale Juarez della capitale messicana.
Poi il 24 aprile, giornata che sarà ricordata, non solo per l’annuncio senza precedenti della sospensione delle lezioni scolastiche di tutti i livelli, ma anche per lo scoppio di questa che ha ormai assunto i contorni di un’altra, ennesima, crisi. Se ne parlava ancora poco quella sera dell’influenza. E tornato a casa, incontravo la mia compagna che è dottoressa. Mi raccontava delle morti (20, solo presso l’Istituto Nazionale di Malattie Respiratorie) e mi descriveva il livello di panico crescente tra i colleghi. La bruttissima sensazione di essere abbandonati, la negazione da parte delle autorità di somministrare i vaccini, il rifiuto di offrire le minime misure di profilassi. Ne parlavamo con stupore e un certo fastidio. E pensavamo a come denunciare la situazione: migliaia di studenti e medici ed infermieri (oltre agli stessi pazienti) esposti perché il governo negava l’emergenza sanitaria. E poi la sorpresa. Alle undici di sera, in catena nazionale, quando ormai tantissimi stanno già dormendo (a Città del Messico, le scuole cominciano alle sette di mattina e molti si svegliano addirittura alla cinque), il Ministro della Salute del Governo federale annunciava la sospensione delle lezioni a tutti i livelli e in tutta l’area metropolitana.
Il panico ci ha messo poco a spargersi. La mattina seguente i mezzi di comunicazione hanno cominciato il loro lavoro d’informazione e disinformazione. Perché in effetti sino ad oggi sono poche le informazioni reali e attendibili sui reali effetti di questo nuovo virus. Al contrario, si diffondono quasi con eccesso consigli ed avvertenze. Si consiglia di tapparsi la bocca e di lavarsi le mani con certa frequenza. Si consiglia di evitare abbracci, strette di mano e baci (anche solo sulle guance), così comuni nelle relazioni interpersonali tra messicani. Si avverte che il virus è trasmissibile con estrema facilità. Si avverte che, per decreto presidenziale, i membri del Ministero della Salute potranno, tra le altre cose, entrare in casa di chiunque se questo dovesse servire a prevenire il contagio; potranno iniettare qualsiasi medicina considerata pertinente a chiunque giudichino a rischio; potranno, con l’aiuto delle forze dell’ordine, sgomberare qualsiasi riunione considerata a rischio: locali e discoteche, ristoranti, chiese, teatri e cinema, centri culturali. Ma anche qualsiasi manifestazione politica sarà sostanzialmente proibita. La cosa curiosa è che la sospensione delle attività scolastiche durerà sino al prossimo 6 maggio, mentre il decreto citato ha una durata “indefinita”. E intanto, l’esercito messicano è nelle strade della capitale: solo a distribuire mascherine, per ora. Stato d’eccezione per un’influenza d’eccezione.
Domenica mattina la città appare spettrale. Già la sera precedente, sabato, si poteva notare l’assenza delle solite masse di giovani e meno giovani che affollavano i locali, che occupavano le piazze. Ma la domenica, classica giornata dedicata alla famiglia, alla fede ed al riposo, magari fuori porta, magari con una passeggiata in centro, la situazione appare davvero surreale. Pochi per strada, spostamenti ridotti al minimo. Ospedali e cliniche e farmacie affollatissime. Anche i mercati sono presi d’assalto da coloro che pensano che passeranno la settimana chiusi in casa.
Eppure le misure adottate dai governi, quello locale e quello nazionale, cominciano a sembrare sempre più contraddittorie. Così come le informazioni che si trasmettono. Si dice, per esempio, che il virus sia una mescola tra virus umano e suino. E, soprattutto, che sia un virus sinora sconosciuto a livello mondiale. Eppure si dice che le persone vaccinate nei mesi scorsi sono al riparo. Così come che ci sarebbero le medicine sufficienti a curare tutti i casi. Allo stesso modo, si riconoscono sinora 20 morti accertate a causa di questo temibile virus. Gli altri casi è impossibile verificarli, perché in Messico non esistono gli strumenti per identificare il malefico virus. Domenica scorsa, il governo ha annunciato che entro tre giorni vi saranno in Messico gli strumenti menzionati. Ovvero solo 6 giorni dopo lo scoppio dell’emergenza. Dieci giorni di stop assoluto a tutte le attività ludiche e di divertimento. Così come delle attività scolastiche. Ma da lunedì 27 aprile si ricomincia a lavorare. È curioso infatti che seppure il Ministro della Salute riconosce che la fascia d’età più colpita dalla malattia sia quella che va dai 20 ai 50 anni, si lascino a casa praticamente tutti i minori di 20 anni, e gli altri a lavorare. Allo stesso modo risulta strano osservare gli aerei sorvolare la città con la normale continuità. Il turismo è sacro per il Messico e la sua economia e quindi nulla si fa per controllare l’entrata e l’uscita dalla città. Gli altri paesi possono aspettare si potrebbe dire, non senza un certo senso di egoismo patriottico. Ma gli altri stati del paese? Mi telefona un amico, da Oaxaca (città dove si dice che tutto sarebbe iniziato). Son già morte due persone da queste parti, mi racconta. Lui è maestro e mi chiede cosa fare: andare a lezione o no? Perché nella capitale è tutto sospeso e altrove no? Gli rispondo che se non se la sentissero, lui e i colleghi dovrebbero disobbedire. Ma disobbedire, a cosa? Lo vedremo nei prossimi giorni, giacché il governo si è rifiutato di fermare ogni attività produttiva ed economica. Certo, ha chiesto alle organizzazioni imprenditoriali di tollerare eventuali ritardi e assenze del personale. Ma questo personale andrà a lavorare? Non sarà sufficiente la paura a lasciarli a casa? Forse quella no, ma 30.000 madri sicuramente ci penseranno, dato che altrettanti bambini non potranno andare né a scuola né agli asili nido.
L’effetto biopolitico dell’attuale crisi sanitaria è travolgente. Non è solo la paura generalizzata, il sospetto costante che ti obbliga a guardare di traverso chiunque accenni un colpo di tosse. Non è solamente l’azzeramento di ogni specie e genere di socialità in questa capitale famosa per la sua capacità allegra di convivere. È anche altro. Alcuni dicono che a differenza della violenza del narcotraffico – altro elemento di psicosi sociale di questi ultimi mesi -, che generalmente coinvolge solo chi ne ha a che fare, l’attuale crisi potenzialmente colpisce tutti. In modo assolutamente trasversale, apolitico e agnostico. E quindi le tentazioni sono molte. Non solo quella di chiudersi in casa e rifiutare ogni contatto con il prossimo, ma anche quello della fuga. Via, via da questa città impestata. Magari fuori dal paese. In maggio dovrebbe cominciare ufficialmente la campagna elettorale per le elezioni federali del prossimo 5 luglio (si rinnova metà Congresso federale), e si è già istruito i partiti affinché non realizzino iniziative massive di proselitismo. Figuriamoci la manifestazione del primo maggio, sospesa. Scontato invece il richiamo all’unità nazionale e tutti, per ora, sembrano accodarsi.
La paura purtroppo si giustifica. Non è tanto il timore di ammalarsi, ma piuttosto quello di non essere curato. Se accettiamo che i medicinali attuali non servono e che vaccini non esistono, allora ci si domanda ‘cosa farò se mi ammalo?’. Le voci son tante ed anche troppe. Si dice, per esempio, che son molti di più i morti di quelli dichiarati. Che molti medici stiano dicendo ai parenti dei defunti di dichiarare altre cause della morte. Che molti medici stiano ricevendo minacce da parte di qualcuno perché non rilascino dichiarazioni alla stampa. E il sospetto, non verso il prossimo ma anche verso il governo, s’impadronisce della quotidianità. Insomma, c’è il sospetto che più che oltre l’epidemia d’influenza, vi sia anche un’importante epidemia di bugie.